Mostra del Cinema di Venezia: 7-9 Settembre


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CONCORSO – Andrei Konchalovsky: Paradise (Russia/Germania)

Konchalovsky gira un film sull’Olocausto in bianco e nero con rapporto 4:3. La vicenda si alterna su tre punti di vista: quello di un commissario francese collaborazionista, quello di una donna russa imprigionata per aver nascosto due bambini ebrei, e quello di un aristocratico tedesco con una fede incrollabile nel “paradiso” promesso dal regime nazista, ovvero un mondo perfetto creato su misura per il popolo tedesco. Paradise è un film di fantasmi e confessioni. I tre personaggi parlano allo spettatore per la maggior parte del tempo con sguardo fisso in camera, in una stanza d’interrogatorio che potrebbe essere una specie di dimensione ultraterrena. Tutto il film è d’altronde è caratterizzato da un’atmosfera onirica e sfuggente. Particolare, con alcuni momenti splendidi e altri piuttosto bolsi e pretenziosi.

 


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CONCORSO – Terrence Malick: Voyage of Time (USA)

Voyage of Time sembra nascere da una costola di Tree of Life. Si tratta di un documentario sulla storia dell’evoluzione, nel quale ci sono, ovviamente, immagini straordinarie. E’ un film ipnotico e seducente come tutti i suoi ultimi lavori, ma purtroppo chi scrive non ha apprezzato (o più probabilmente, capito) la voice over di Cate Blanchett che si rivolge con il solito ermetismo alla Natura e alla Vita. A parte le splendide immagini, non mancano infatti alcune ingenuità: nella versione di Malick la Natura è sempre generosa mentre l’uomo è l’unico responsabile della propria sofferenza. L’aspetto che distingue questo lavoro dal resto della sua recente filmografia sta nell’inserimento di spezzoni girati amatorialmente in più parti del mondo, che restituiscono una sensazione di declino umano tramite una fotografia sporca in contrappunto con l’estetica sontuosa presente nel resto della pellicola.

 


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CONCORSO – Pablo Larrain: Jackie (USA/Cile/Francia)

Scriveremo poche righe, in attesa della sua uscita e in attesa di affrontare il precedente Neruda, che è più complesso ma complementare a Jackie. C’erano buone ragioni per dubitare del film in concorso di Pablo Larrain, girato per la prima volta negli Stati Uniti e incentrato sulla figura di Jacqueline Kennedy. Bastano, però, pochi minuti per cambiare idea. Innanzitutto, è bene precisare che il soggetto non è di Larrain, e che anzi il cileno è subentrato in un progetto americano preesistente. Di conseguenza con questo film Larrain stabilisce un contatto con Hollywood e la storia americana, prendendo in prestito il mito senza assogettarsi ad esso, ma anzi facendone un uso personale. Nella pellicola collidono infatti tutti gli aspetti più interessanti del cinema del regista. Il film più vicino a Jackie è No – I Giorni dell’Arcobaleno, sia per contenuto che per scelte estetiche. No parlava, in soldoni, della logica della pubblicità e del mercato dell’immagine finalizzati a un fine superiore, in altre parole di come spettacolo, finzione e bugia possono essere utilizzate per conseguire il bene. In modo simile in Jackie vengono affrontati, con una dialettica contradditoria di amore e odio, l’iconografia e lo spettacolo come motori imprescindibili della storia americana; è un film sulla necessità di creare leggende, vere o finte che siano: la protagonista lotta perchè i Kennedy sembrino dei Cavalieri della Tavola Rotonda contemporanei. Da un punto di vista estetico, Jackie adotta similmente a No una fotografia sgranata e fonde filmati d’epoca con il girato: è il caso di una scena in cui la donna è ripresa da dietro un finestrino sul quale si riflette una folla, che non è una folla ripresa ma l’immagine di un filmato d’epoca che viene fatto scorrere come un riflesso sul finestrino. Larrain è sempre più interessato ai mezzi di comunicazione e soprattutto di (tele)visione. La sua estetica evolve e si raffina in maniere insperate. Discorso a parte merita Natalie Portman che compie uno studio della voce e della postura stupefacenti: è proprio un film sull’importanza della postura. Ad oggi principale candidato per il Leone, Pablo Larrain dimostra ancora una volta di essere probabilmente uno dei registi più prolifici e importanti del cinema contemporaneo.

 


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ORIZZONTI – Reha Erdem: Koca Dunya / Big Big World (Turchia)

Per rapire la sorella dalla sua famiglia adottiva, un ragazzo compie un delitto. I due sono costretti a fuggire dalla periferia di Istambul a un bosco. Qui entrambi si organizzano per vivere in mezzo alla natura, fino a che non sarà il momento di tornare. All’inizio il piano funziona, ma varie vicende incrineranno i rapporti fra i due. Il film ha buone premesse, ma è un gran pasticcio. Dopo un incipit accelerato il film rallenta e si concede ad una serie di evocazioni contemplative; da film di stampo realista si fa fantastico. La transizione potrebbe essere affascinante, ma è raffazzonata e piena di incoerenze.

 


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FUORI CONCORSO – Sergei Loznitsa: Austerlitz (Germania)

Il film è composto da una serie di inquadrature fisse in bianco e nero nei quali osserviamo turisti che visitano il campo di Sachsenhausen vicino a Berlino. I turisti girano per i luoghi del campo di sterminio con aria indolente: scattano selfie, mangiano panini, vanno avanti e indietro in infradito, alcuni sembrano delusi perchè i luoghi non sono così eccitanti, altri si mettono in posa per fare foto davanti ai forni crematori. A volte percepiamo una guida di passaggio che spiega la funzione dei luoghi che osserviamo, ma restano solo frammenti di spiegazione. Non c’è niente di commovente in Austerlitz, eppure il documentario è un atto di accusa terribile e sincero: terribile, perchè ormai il campo di sterminio è un luogo come un altro, da appuntare sul proprio viaggio turistico; sincero, perchè non avviene alcuna manipolazione dell’immagine: lo sguardo di Loznitsa è neutro e oggettivo. La famiglia che in posa sorride al cheese sotto la scritta Arbeit Macht Frei è una delle immagini più intense di questa Mostra.

 


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SETTIMANA DELLA CRITICA – Xander Robin: Are We Not Cats? (USA)

Un film d’amore bizzarro su due strambi che hanno l’abitudine di mangiare i propri capelli. Abitudine innocua, che però alla lunga genera patologie mediche. Colmo di situazioni grottesche, con personaggi un pò tormentati ma fondamentalmente carini, con largo utilizzo di ralenty come in ogni buon film pseudoautoriale finto indipendente americano che si rispetti. Non si capisce il perchè di questo film, ma alla fine rimangono incredibilmente 70 minuti e rotti di piacevole intrattenimento. Interessanti i titoli di testa.

 


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ORIZZONTI – Nicholas Verso: Boys In The Trees (Australia)

Sulla carta, Boys In The Trees dovrebbe essere un film horror sul passaggio dall’infanzia all’età adulta, sull’omofobia, sui ricordi, sul potere dell’immaginazione, sugli amori non corrisposti e tanto altro. Sullo schermo, Boys In The Trees è una vera e propria boiata. Una scrittura infarcita di scenette assurde, una regia piena di inutili funambolismi, dialoghi artefatti che sembrano presi da un teen movie Disney, perfino un finale ad effetto alla Shyamalan. Non vale la pena di spendere troppe parole. Per chi scrive il punto più basso della Mostra.

Stefano