Ana Lily Amirpour: A Girl Walks Home Alone at Night

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ANA LILY AMIRPOUR

A Girl Walks Home Alone At Night

(USA 2014, 99 min., b/n, horror/drammatico)

Ana Lily Amirpour, classe 1980, è una regista americana di origini iraniane. Il suo film d’esordio, parlato in Farsi e ambientato in un Iran immaginario, non ha in realtà niente a che fare con l’Iran, se non con l’Iran che esiste nella mente della regista.

In che filone si colloca A Girl Walks Home Alone at Night? Di certo in una tendenza ultra-derivativa e ultra-citazionista che negli ultimi anni sembra avere preso piede tra le nuove leve del cinema americano. Chiacchierata e celebrata come astro nascente del cinema indie, Ana Lily Amirpour in realtà ripropone qualcosa di già visto, attingendo a un bagaglio culturale composto da cult movies alla Tarantino, Leone e Nicholas Ray, e da filmografie un pochino più ricercate: il film rende evidentemente omaggio a certe atmosfere alla Wenders del periodo americano, o ai bianchi e neri del primo Jarmush.

Pensiamo a quello che è forse l’aspetto più importante: l’ambientazione. Girato in California, la città che fa da sfondo al film sembra la versione dark della classica città di provincia americana uscita dagli anni ’50, avvolta in una nebbia di immobilità e di indeterminatezza resa da forti contrasti di luce, e catapultata però in un indefinito Medio Oriente.

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Tutto quanto sembra essere più che citazionistico: è fumettistico. La cripticità e la stilizzazione è portata all’estremo al punto da chiamare perentoriamente la città, con scarsa inventiva, Bad City. La città (poco più che luogo mentale della regista) è popolata da personaggi/fantasmi presi in prestito da un immaginario fatto di pulp, film cult e fumetti dark: il belloccio protagonista alla James Dean, lo spacciatore sadico e tatuato, la prostituta da Far West. In mezzo a questo universo immutabile, dove non c’è niente di vero e tutto è oppresso e ripetitivo, come le pompe di petrolio spesso inquadrate a compiere la stessa automazione interminabilmente, fa capolino una ragazza velata, che si rivelerà pure lei fumettistica: una nuova super-eroina, la vampira velata. E qui veniamo al punto. Amirpour gioca la sua carta: cresciuta a pane e Tarantino e fumetti come il 90% dei colleghi della sua generazione, conserva la peculiarità di essere una regista di origine iraniana. Quindi, ambienta il film in un Iran che non ha nulla a che fare con la realtà tranne che per la percezione che il pubblico occidentale ha di esso. Sarà una donna, misteriosa vendicatrice vampira col chador islamico (invece del classico costume da Dracula) che ascolta post-punk e rock anni ’80 nella sua cameretta (come probabilmente fa l’alter ego-regista, pure DJ), a punire i cattivi e rimettere i buoni in carreggiata, in barba alla supremazia maschile dettata dalla legge coranica.

Fermo restando che la parabola femminista è in partenza piuttosto prevedibile, e che pare soprattutto raffazzonato il tentativo di riversare l’immaginario nerd in Iran, con tutte le contraddizioni dell’Iran che la regista conosce ma che sono qui molto semplificate e addomesticate per essere fruite da quel pubblico occidentale che si ferma ai titoli dei quotidiani e che al massimo va a verificare la posizione del paese sulla carta geografica (forse proprio il pubblico del Sundance che tanto ha applaudito il film), la regista dimostra una finezza stilistica e una cura da videomaker navigata.

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Ogni gesto è coreografato in maniera quasi esasperata, ogni frame vuol lasciare di stucco con ralenty a profusione; le scene più significative, come quelle che scandiscono gli incontri del ragazzo e della ragazza, sono splendidamente realizzate ma non si può mantenere lo stesso ritmo per tutto il minutaggio: pena un controeffetto soporifero e un senso avvertibile di ostentato auto-compiacimento. Viceversa, il film funziona bene quando si prende meno sul serio, quando cioè non si arena sulla costruzione a tutti i costi di scene cool ma si prende in giro con umorismo nero. Va dato credito al film che ad arricchire una storia di per sè pretestuosa (la vendicatrice femminista in Iran) c’è una serie di dettagli piuttosto interessanti, come quello del gatto presente nelle scene principali, che, come il film ha una visione monocromatica (bianco/nero buono/cattivo) e come la protagonista una natura di predatore; non è forse una caso che il gatto sia spesso oggetto di fulminei primi piani e che venga posizionato addirittura al centro dell’inquadratura nella scena conclusiva del film.

In conclusione, questa nuova regista ha certamente talento e un senso estetico finissimo anche se troppo derivativo: speriamo che superi presto l’onanismo citazionista per creare qualcosa di veramente personale e originale.

Stefano