Michael Mann: Blackhat

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MICHAEL MANN

Blackhat

(Usa 2015, 132 min., col., thriller)

Dopo settimane di critiche contrastanti, scrivere qualcosa di originale o almeno di sensato sull’ultimo film di Michael Mann sembra un’operazione impossibile, soprattutto considerando che sul nostro sito ancora non c’eravamo imbattuti nell’articolato discorso che si genera attorno al suo cinema. Oltre che vasto e complesso, il discorso su Mann è soprattutto delicato, perchè pochi altri registi negli ultimi anni hanno saputo dividere l’opinione cinematografica in due parti distinte: i detrattori, che si ritrovano soprattutto nella categoria di critici maggiormente interessati agli aspetti della scrittura (sceneggiatura, recitazione ecc.); e i sostenitori, di solito al contrario maggiormente interessati agli aspetti estetici (messa in scena, fotografia ecc.). Inutile dire che, tipicamente (tipicamente: non generalizziamo troppo), i primi considerano Blackhat un film che rasenta il trash, e che i secondi considerano Blackhat un film che raggiunge, o almeno si avvicina, al capolavoro.

Per i primi (si vedano i voti su RottenTomatoes e in generale la maggior parte delle opinioni dei critici “ufficiali” americani), dai film più recenti emerge sempre più decisivo il sintomo di un autore che ha smarrito il suo tocco, o che ha perduto il controllo del suo talento. Certamente, molti di questi critici hanno approfittato dell’ultimo, radicale traguardo del regista per domandarsi se il 71enne non abbia perso le sue facoltà mentali, con forse l’occasione di assodarne, finalmente, la definitiva caduta dopo gli ultimi film (i bistrattati Miami Vice e Nemico Pubblico).

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D’altronde, l’approccio “prendere o lasciare” di Mann, che non perde tempo a rassicurare il proprio spettatore, nel suo ultimo film gli permette spesso di spingere alcuni aspetti della pellicola in direzioni poco credibili, al limite del ridicolo: in Blackhat è difficile accettare la plausibilità di certe sequenze, la povertà e la frettolosità di alcuni dialoghi, o banalmente la credibilità di alcuni personaggi. A partire dal suo protagonista, un hacker che s’improvvisa uomo d’azione una volta arruolato dall’FBI e dalle forze speciali cinesi per dare la caccia armata ad un pericoloso cyber-terrorista, può lasciare abbastanza scettici. Gli aspetti che questi critici mettono alla berlina sono del tutto evidenti all’interno del film, e Mann di certo non aiuta a farsi voler bene da questa categoria di persone che non perdono occasione di demolirlo dal 2006 – anno di Miami Vice.

Con la stroncatura di Blackhat non fallisce Mann, falliscono la cultura e la critica cinematografica tradizionali. Perchè ogni volta, insieme a Michael Mann torna il grande cinema americano.

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Si fa una gran fatica a parlare del cinema di Mann, a meno che non si scriva di pancia, perchè il cinema di Mann è difficilmente descrivibile a parole. I suoi lavori appartengono a quello straordinario gruppo di film fatti non per essere discussi, ma semplicemente visti e amati. Il solo parlare del suo cinema sembra quasi spezzare un incantesimo oscuro e imprevedibile fatto di brevi momenti che generano un senso istantaneo ed inafferrabile, spesso attraverso sguardi o gesti che dicono più delle (trascurabili) parole di una debole sceneggiatura. Innanzitutto, che piaccia o meno, in Blackhat Michael Mann rimane ancora in equilibrio tra i propri motivi-cardine (l’amicizia, la perdita, la scelta, la fuga, il duello ecc.) e la ricerca estetica radicale che continua ormai da oltre un decennio; La famosa conversione al digitale di Mann, ha anticipato un cambiamento progressivo nell’approccio al suo cinema, con un ritmo sempre più sincopato tra sospensione e improvvise accelerazioni, grazie ad ellissi sempre più massicce, con un uso sempre più audace del fuorifuoco e dei riflessi, e con scene di azione sempre più impressionistiche, insieme ad una maggiore sensazione di “confusione”, dovuta al ricercato effetto di una camera a mano che si sforza di pedinare i suoi personaggi, quasi nell’affanno impossibile di seguire l’azione per intero; insomma una sorta di vitale frenesia studiata e ricercata che, di film in film, può apparire allo spettatore comune, che solitamente mal apprezza simili innovazioni, anche inelegante o frettolosa. Tutti questi aspetti a partire da Miami Vice raggiungono l’apice in Blackhat, come se la conversione al digitale fino ad adesso non fosse stata ancora ultimata. Piuttosto che tentare, con il digitale, di riprodurre l’effetto della celluloide (come fanno quasi tutti i suoi contemporanei), Mann va nella direzione opposta, per cui il digitale è digitale, niente abbellimento o trucco: solo digitale, freddo, impersonale, preciso. Quando, ad esempio, gira in un ambiente chiuso e mal illuminato, ci si rende conto che quell’ambiente è mal illuminato perchè la grana dell’immagine sembra alterarsi, diventando impastata, disturbata: niente trucchi, il digitale è così. L’effetto finale è molto difficile da spiegare a parole: è come se Mann volesse rivelare le componenti artificiali del suo film (come vedere gli ingranaggi dentro un orologio ai raggi X), con il film che si disgrega nelle sue parti costitutive, con i suoi singoli pezzi che raccontano e valgono come l’intero. Come dice Giacomo Calzoni in “Orizzonti di Gloria”:

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E questo è un film: uno tra i tanti possibili […] Perché poi c’è un altro film, quello vero, nascosto sotto la superficie ma sempre pronto a venir fuori in mille momenti diversi, tutti grandissimi, e bellissimi, e tutti incredibilmente espliciti nella loro portata emozionale.

Conseguenza di ciò è un allontanamento tra ciò che è la vicenda, la “storia” del film, e quello che è l’aspetto puramente cinematografico del film, costituito dalle sue singole parti, dai suoi singoli momenti, anche brevissimi, di altissimo livello. E’ come se la grandezza formale del suo cinema avesse fagocitato la comunemente detta “storia”, l’ossatura della pellicola, che rimane appunto relegata ad un semplice ruolo strutturale. D’altronde, Blackhat comincia come un intricato cyber-thriller e finisce come un film d’amore e vendetta. Il punto per il critico è stabilire, in base a personalità e sensibilità personali, se questo allontanamento sia frutto di una disfunzione o di un effetto voluto, o, ancora meglio, di entrambi, in una sintesi insieme classica e radicale. Come invece sintetizza perfettamente Matteo Marelli dagli “Spietati”:


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“[Mann] sembra aver ereditato […] il principio di estetica funzionalistica che trova applicazione in un’idea di forma conseguente alla funzione. […] Da qui la relativa autonomia del visivo rispetto al racconto. Questa forte capacità di stilizzazione gli consente di dare, pur nell’impeto di una concitazione espressionistica, a ogni opera, come in quest’ultima, una misura classica; di sfuggire agli stilemi di genere per affermare una solitaria chiarezza stilistica.”

Come si è detto, Blackhat non perde tempo a testare il suo spettatore. Comincia con quella che potrebbe essere descritta come una lunga ouverture senza parole, nella quale, dopo l’immagine di un pianeta coperto da una rete di connessioni informatiche, seguiamo il percorso di un impulso elettrico attraverso le connessioni di un sistema informatico che controlla il sistema di raffreddamento di una centrale nucleare cinese. Le architetture e le geometrie di questi circuiti ricordano fantascientifiche città del futuro, o meglio proprio le famose skyline notturne tipiche dei film di Mann.

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Così la tecnologia, e il modo in cui essa trasforma la vita e le persone, torna a ribadire la sua importanza, tanto che in Blackhat gran parte dell’azione ha luogo nello spazio digitale. Eppure, il grande regista classico tiene un piede ancorato a terra, nell’azione fisica e in quella bellezza dello sguardo che da sempre lo distingue elevandolo idealmente al di sopra di ogni altro autore di film americani ad alto budget. E’ inutile starlo a ripetere, ormai l’hanno capito tutti: nessuno come Mann destabilizza e scompone la logica, gli schemi e il modo di far cinema hollywoodiano dal suo interno come fa lui. Nessuno rappresenta l’azione, l’onore, la forza, il desiderio come lui. E così, come nel resto della sua filmografia, anche in Blackhat ci sono momenti di bellezza straordinaria, tra brevi istanti di intimità erotica, o di sospensione riflessiva (come nel momento in cui il protagonista Hathaway si ferma e guardarsi intorno prima di iniziare la missione. In quel momento, vede qualcosa che non ci è possibile distinguere perchè fuori fuoco; e a questo punto la ragazza – poi amante – gli poggia la mano sul braccio e torna in sè: il momento è indescrivibile a parole). E’ d’altronde, Blackhat, un film tanto sul rapporto tra fisico e virtuale (il film mostra a poco a poco la transizione del protagonista dal mondo virtuale al mondo fisico, e l’affrancamento dal primo per abbracciare il secondo), e tanto sulle reti invisibili delle connessioni informatiche, quanto sull’ineffabilità dei sentimenti.

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Se l’atto di estremizzare la ripresa in digitale come strumento per cogliere il massimo realismo era comunque immaginabile, il “centro” di questo film (che sembra non fermarsi mai ipnotizzando con la sua forza centrifuga) rimane saldamente ancorato alla tradizione cinematografica (e cinefila). Quale tradizione? Quella del cinema classico, al limite pure quella del suo stesso cinema. Ma per noi la grande novità, per Mann e forse per tutto il cinema americano d’azione (come sarà il cinema americano d’azione tra 10 anni? Scommettiamo che torneremo a parlare di Blackhat?) è l’integrazione, al cinema classico – d’azione e d’avventura – americano, di  aspetti associati al cinema orientale. Lo si capisce dai tempi dell’azione, calibratissimi, e dalle sequenze di presentazione prima dei duelli. Inoltre ad un certo punto ciò che guida l’azione e le svolte della trama non è più l’indagine, ma l’amore tra i protagonisti, come se il film si affrancasse dalla superficie fredda di server, codici e attacchi informatici per abbracciare invece stilemi classici, tangibili: alla fine, per perpetuare il loro amore, e per mantenere in vita un film che sembra mai fermarsi, anche Lien e Hathaway devono correre verso la libertà e non fermarsi mai.

Stefano