Alejandro G. Inarritu: Birdman (o Le Imprevedibili Virtù dell’Ignoranza)

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ALEJANDRO G. INARRITU

Birdman (o Le Imprevedibili Virtù dell’Ignoranza)

(USA 2014, 119 min., col., drammatico/commedia?)

L’ultimo singolare film di Inarritu è certamente interessante e pieno di spunti, ma è anche un film assai furbo, scritto a tavolino per far versare litri di inchiostro a critici ed esegeti vari. Sono innegabilmente affascinanti il virtuosismo, i dialoghi, i riferimenti meta-cinematografici, essendo la pellicola impegnata su due fronti: l’analisi del ruolo dell’uomo-artista nel processo creativo, e quello della relazione controversa che intercorre tra opera d’arte e opera d’intrattenimento. Birdman è una pellicola che ci stimola e, soprattutto, che ci stupisce, ma che non ci convince appieno.

Dal nostro punto di vista, il film è, sulla carta, quasi fondamentale, per l’ambizione con cui si pone nei confronti della questione cinema d’autore – cinema d’intrattenimento. Ed è una mossa vincente prendere Michael Keaton, ex-Batman degli anni ’90, e mettergli in mano la parte di un ex-attore di cult supereroistici prestato all’allestimento, alla regia e all’interpretazione di un pezzo d’arte “alta” teatrale a Broadway. E’ nondimeno una mossa sbagliata, specie considerando le molte tematiche che il film affronta con frettolosità (identità, amore, finzione, spettacolo, paternità) affidargli pure apparenti poteri telecinetici. E’, soprattutto, una mossa sbagliata semplificare la figura degli “addetti ai lavori” ad un elenco di clichè esistenzialisti (l’attore che è a suo agio solo sul palco, quello bisognoso di attenzione, quella patetica senza autostima, il tizio che bada solo al profitto, la critica colta e piena di pregiudizi ecc.), in un tentativo di fare dei turbamenti dell’attore un esempio della smania di protagonismo o dell’ansiosa ricerca di riconoscimento che appartengono al narcisismo contemporaneo: la maggior parte della critica che si è schierata a favore del regista messicano vede, non a torto, un netto riferimento alla contemporaneità (rafforzato dal ruolo determinante che costituiscono tecnologia e social network nel corso del film) che evidentemente rappresenta il cuore espressivo, forte e chiaro, del film. Un film che però, a nostro parere, non respira mai veramente, come invece fa, e a pieni polmoni, un’altra pellicola contemporanea che affronta, seppur tangenzialmente, le stesse tematiche: Sils Maria.

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E’ paradossale come l’aspetto più problematico del film sia quello più interessante: funzionale o meno a ciò che racconta, bisogna dare atto a Inarritu di essere riuscito a creare un flusso filmico di grande impatto, che ricorda Enter the Void di Gaspar Noè: Impressionante come spazio e tempo risultino compressi e stirati, come interni ed esterni si alternino claustrofobicamente, senza stacchi, come le diverse scenografie esplodino di particolari (il camerino del protagonista: lo specchio, il poster, l’adesivo di incitamento…una scenografia che si fa luogo mentale), non lontano dallo sfarzo barocco del Wright di Anna Karenina. Ma il problema sta fondamentalmente nelle non-conclusioni e, più per esteso, nella scarsezza di sintesi che soccombe allo stile eccessivo di un autore dalla tecnica sopraffina che però mal si adatta alla profondità d’analisi che si vorrebbe alle vicende che prova a rappresentare. Due ore di (falso) piano sequenza sono certamente uno spettacolo per gli occhi, certo.

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Ma a un certo punto si capisce di stare su una giostra, con la gioia e l’entusiasmo di stare su una giostra, mista però alla consapevolezza che si sta solamente su una giostra, e che quindi non c’è niente di tangibile, pregnante, doloroso, fisico, reale: un pò come nell’ultimo Sorrentino, può darsi che ci stupisca, ma non ci convince. In sintesi: i poteri telecinetici e il piano sequenza hanno una funzione concettuale oltre a quella di voler stupire? Nell’Arca Russa di Sokurov, spesso tirato in questione con questo film (anch’esso girato per intero nella stessa maniera), il p/s ha una chiara funzionalità. In Birdman invece, l’impressione dominante rimane che, nel sopracitato barocco della messa in scena, ci sia essenzialmente una continua volontà e necessità di stupire a tutti i costi (perchè di questo si tratta, stupire: tanto il pubblico “colto” quanto quello abituato ai cinecomics), con l’effetto deleterio di rendere tutto scontato, prevedibile. Ciò che si verifica a livello di messa in scena si riverbera sullo sviluppo narrativo, con svolte prevedibili quali la presa di coscienza finale del protagonista, o il repentino cambio di opinione della critica che prima lo odia e che poi finisce per rilevare nella sua opera-sacrificio l'”imprevedibile virtù dell’ignoranza”, dello spettacolo che si fa vita (questa, un’esplicita presa per i fondelli di certa critica snob). In conclusione, dopo questo giro in ottovolante, e dopo tutto il caos di tematiche potenzialmente gustose che questo tour de force dissotterra senza però approfondire mai in modo davvero incisivo, l’autore necessita di divincolarsi, di trovare una soluzione al disordine tematico che ha generato, di scartarsi in corner proprio come faceva Sorrentino con i suoi ridicoli fenicotteri rosa: una soluzione che vorrebbe tirarci fuori dall’impasse con una “magia” (non so come far finire un film? facciamo una magia: sopresa!), un salto nel vuoto che Inarritu vorrebbe catartico, ma che invece della magia rivela un illusione. Un film dalla forma e dalle intenzioni entusiasmanti, ma fondamentalmente costruito e artefatto (a qualcuno piacerà così e avrà ragione; a noi, semplicemente, no). Piacerà agli Academy: prevediamo valanghe di premi.

Stefano