Martin Scorsese: Silence

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MARTIN SCORSESE

Silence

(Usa 2016, 161 min., col., drammatico)

Lontano anni luce dall’onanismo cinefilo di Hugo Cabret e dalla commedia sociale di Wolf of Wall StreetSilence è un film formidabile. Ciò che impressiona della pellicola di Martin Scorsese non è tanto la qualità e la complessità dei temi trattati, quanto la cristallina chiarezza espositiva con cui è riuscito a rappresentarli. Il regista è riuscito a coniugare un insieme di suggestioni cinematografiche superbe con un discorso che scoperchia il tema della fede e delle sue contraddizioni con precisione e lucidità, e senza la minima pomposità intellettuale.

 


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Silence non intende, come farebbe credere all’inizio, rivisitare la storia di Cristo nella pelle di un missionario in Giappone nel diciassettesimo secolo – quindi “parteggiare” per i cristiani e denunciare così un fatto storico; piuttosto, Silence racconta la storia di un uomo che vorrebbe essere come Cristo, che parte con l’ambizione vana di fondere la propria immagine con quella di Cristo, finendo invece per tracciare un percorso che lo porterà ad una rigenerazione della fede: Nel 1640 due missionari gesuiti, Rodriguez e Garupe (interpretati – piuttosto male – da Andrew Garfield e Adam Driver) partono alla volta del Giappone per smentire la voce che il loro mentore, padre Ferreira, ha rinunciato alla fede cristiana per vivere come un giapponese. Se la pellicola inizialmente si concentra sulla missione, sull’aspetto avventuroso/thriller dei gesuiti braccati dai persecutori in un’epoca in cui in Giappone i cristiani erano cacciati e uccisi, col passare dei minuti l’opera tende ad accentrarsi sempre più sul protagonista Rodriguez e il suo conflitto interiore. Ciò che tormenta Rodriguez per l’intero viaggio è il silenzio, nel senso di silenzio di Dio alle preghiere rivolte per alleviare le sofferenze dei propri “agnelli”.

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In una sequenza chiave, mentre è inseguito dai persecutori, Rodriguez si abbevera in un torrente e vede il suo riflesso unirsi nell’acqua all’immagine (l’immagine) di Cristo: in questa sequenza chiave si capisce come, nel suo ispirarsi ad essere come Cristo, Rodriguez si auto-glorifichi narcisisticamente pensando di ri-vivere la vicenda di Cristo e, sopraffatto da questa illusione, ride come un pazzo prima di essere arrestato. Non è un caso che tale sequenza sia inserita al centro del film, e che lo tagli idealmente in due. Da questo momento in poi, Rodriguez inizierà a capire come non sia vivendo nell’immagine di Cristo che può trovare Dio: la propria trasformazione da uomo di fede cieca e assoluta (e quindi limitata - come invece resta fino alla fine il compagno di viaggio Garube, votato invece alla venerazione dell’immagine, al dogma e, in ultima istanza, al martirio) a uomo che si auto-interroga, e quindi dal dubbio a una nuova, rinnovata fede, avviene internamente attraverso un combattuto dialogo con sè stesso e si manifesta esternamente in alcune figure che riflettono e distorcono il processo di trasformazione.

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Tra queste figure, che rappresentano varie declinazioni della fede, ci sono ad esempio il contadino che si martirizza accecato dalla promessa del paraiso, la cui idea è frutto del proselitismo che promette un aldilà materialista (niente lavoro, tasse, malattie) travisato appositamente per risultare fruibile ai contadini; C’è la guida giapponese Kichijiro, cristiano apostata, che vende Rodriguez alle autorità e che, ripetutamente, il protagonista è chiamato a perdonare rinnovandone quindi la vocazione al perdono; C’è l’inquisitore che da classico antagonista si scopre avere una più ampia, lucida e pragmatica visione della realtà di quanto non abbiano i sacerdoti. E c’è naturalmente padre Ferreira, la cui figura rimane volontariamente sospesa nel mistero, che scopre la possibilità di fare del bene rinnegando la propria fede in pubblico senza (forse) perderla veramente. Per il protagonista la rigenerazione della fede passa dunque attraverso la presa di consapevolezza che Dio risiede nello spirito intimo e personale (“è nel silenzio che ti ho trovato“) e che la sua esistenza è indipendente da riti o oggetti, e che trascende simboli o immagini. Rodriguez trova infine Cristo in sè (e fin qui niente di nuovo), ma solo dopo aver rinunciato all’immagine di Cristo, e quindi ad ogni presunzione egocentrica di santità, ad ogni ricerca di verità assoluta.

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Per chi è abituato agli ultimi lavori del newyorkese, Silence potrebbe apparire lento e piatto, invece è questo lo Scorsese che ci piace di più: rinunciando agli eccessi di virtuosismo che ne hanno contraddistinto la filmografia recente, da Gangs of New York a Wolf of Wall Street passando per The Departed, finalmente il regista ripiega il proprio stile sull’essenziale, rinunciando a movimenti di macchina plateali, limitando al massimo ralenty ed effetti speciali, lavorando invece sui suoni, sulle luci e sugli ambienti. Significativamente, già sul titolo “Silence” (fermati e pensa) vengono interrotti quei suoni ambientali che rimangono persistenti per quasi tutti i 163 minuti. Il direttore della fotografia Rodrigo Prieto evoca panorami foschi e fangosi, spesso onirici e inquietanti, come quando Rodriguez viene sorpreso su una barca da alcuni contadini che emergono dalla nebbia. Il rispetto di Scorsese per gli eventi si intuisce dalla distanza che sceglie per rappresentarli. Anche le scene più violente, come quella dei cristiani appesi ai pali per essere scottati con acqua bollente, sono girate con una strana serenità, come se la sofferenza venisse in qualche modo amplificata dalla placidità della macchina da presa.

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Ci troviamo probabilmente di fronte al film più personale di Scorsese da quindici anni, cioè dal controverso Al di là della Vita. Altri film hanno toccato gli interessi e le ossessioni del regista senza mai raggiungere pienamente le sue ambizioni. Insomma, Silence potrebbe essere la confessione definitiva di Martin Scorsese, un punto fermo della propria carriera che segna un picco di bellezza magistrale. E’ un film sulle declinazioni e deformazioni della fede, sulla vanità e sull’arroganza di voler assomigliare a Cristo e di imporre la propria idea, ma soprattutto una confessione sulla paura che nessuno là fuori ti stia ascoltando, un film malinconico dall’anima enorme: un requiem straziante e magnifico.

Stefano