Mostra del Cinema di Venezia: 5 Settembre


Dawson+City

ORIZZONTI – Bill Morrison: Dawson City / Frozen Time (USA)

Il film di Bill Morrison è un atto d’amore nei confronti del cinema. Si dice che l’80% dei film girati nell’epoca del muto siano andati perduti, soprattutto a causa delle difficoltà di mantenimento delle pellicole in nitrato, che si decomponevano rapidamente e prendevano fuoco per autocombustione se non immagazzinate in precise condizioni di temperatura ed umidità. Con l’arrivo del sonoro e di pellicole più sicure, le pellicole in nitrato sono state per lo più distrutte o dimenticate. Dawson City non è un film girato, ma composto da parti di centinaia di film realizzati nei primi trent’anni del ‘900. Queste pellicole sono state sepolte per 50 anni nel permafrost canadese a Dawson City, nello Yukon, e ritrovate per puro caso in una piscina sotterrata durante lavori di costruzione. Si tratta in parte di film importati dagli USA, in parte di cinegiornali che documentavano la corsa dell’oro in quella regione, dove scorre il Klondike. A parte l’enorme valore storico delle pellicole, vere e proprie capsule del tempo di un’epoca lontanissima, il valore intrinseco di Dawson City sta nel raccontare la Storia (della corsa dell’oro, ma anche di come le pellicole siano state dimenticate) unicamente attraverso l’assemblaggio delle medesime pellicole. I segmenti dei film che vediamo rispecchiano creativamente ciò che è descritto nella narrazione dei sottotitoli, in una sorta di “rappresentazione indiretta”. Non ci sono quindi nè voice over nè dialoghi, ma solo musica (e che musica: Morrison ha lavorato in passato con Philip Glass e Bill Frisell, qui con Alex Somers). Ciò che vediamo è naturalmente degradato, sporco. Il contenuto narrativo prosegue di pari passo con il disfacimento del suo supporto fisico: Dawson City è un capolavoro immenso sul decadimento e sulla preservazione dell’immagine.

 


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FUORI CONCORSO – Andrew Dominik: One More Time With Feeling (USA)

Dopo film complessi e stratificati come l’Assassinio di Jesse James e Cogan, Killing Them Softly, Andrew Dominik ripiega verso il documentario musicale, ovviamente a modo suo, con originalità. Il film, girato in bianco e nero in 3D, mostra Nick Cave lavorare alle registrazioni del suo ultimo album, dopo un periodo di silenzio causato dalla morte del figlio Arthur. Fin da subito, viene rivendicata la sincerità di fondo dell’operazione, che non intende scavare e psicanalizzare il trauma subito dall’artista ma attenersi alla pura registrazione degli eventi in corso. La stessa operazione è puntualmente presa in giro (“stiamo girando in questo stupido b/n con questa stupida cinepresa 3D) e perciò dal documentario viene eliminata qualsiasi tentazione di fare retorica sulla tragedia. Paradossalmente, in One More Time With Feeling l’emozione è forte, fortissima anche se celata: si respira un vero e proprio “clima” traumatico in queste registrazioni. Cave è un grande performer ma soprattutto approfitta dell’operazione di Dominik, in un gioco di reciproco appoggio (o sfruttamento?) per compiere una autoanalisi, spalancando le porte della propria sofferenza. Ne esce un documentario di potenza rara, soprattutto tra quelli musicali che sono generalmente retorici e celebrativi.

 


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ORIZZONTI – Tim Sutton: Dark Night (USA)

Sà di già visto Dark Night, film indipendente sul massacro in un cinema alla proiezione di The Dark Knight Rises. Non c’è bisogno di scomodare Van Sant, come hanno fatto a ragione tutti, qui al Lido: Dark Night assomiglia a molti altri film sulla provincia americana, sulla questione delle armi e dei videogiochi, sull’alienazione dei giovani eccetera. Lo fa, solo, con uno stile più rarefatto, con tagli di inquadratura più originali, nella pressochè assenza di dialoghi: invece che mostrare la violenza, il regista preferisce compiere uno studio d’ambiente, seguendo la giornata dell’evento dal punto di vista dei vari giovani vittime della strage. E’ certamente un quadro desolante dell’America di oggi, ma, dal nostro punto di vista, semplificatorio: la pellicola non apre mai, è asfissiante e non si articola mai in un discorso che sia veramente compiuto o incisivo.

Stefano