Nicolas Winding Refn: The Neon Demon

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NICOLAS WINDING REFN

The Neon Demon

(Fra/Usa/Danimarca 2016, 117 min., col., horror)

Una ragazza arriva a Los Angeles per sfondare come modella, ma si troverà ad affrontare l’invidia delle colleghe…

Ma ha mai avuto senso affrontare il cinema di Nicols Winding Refn attraverso la trama dei suoi film? Così come per Solo Dio Perdona, è indispensabile proporre una lettura che vada oltre il suo contenuto. Se qualche traccia di sceneggiatura, trama o qualsiasi “polpa” contenutistica era finora sopravvissuta nei film del regista danese, come lasciava illudere Drive nel 2011, è chiaro oggi che il suo cinema sia ormai così rarefatto e spolpato dalle proprie componenti di scrittura da restare anti-materia audiovisiva, ai limiti dell’astrazione, che supera, o meglio ignora, i concetti di bello/brutto, giusto/sbagliato, necessario/inutile eccetera. Esaminare un film letteralmente eccezionale come The Neon Demon con la lente d’ingrandimento di chi cerca significati e contenuti nascosti è, per chi scrive, una colossale sbandata. Ma, se si toglie del tutto (o quasi) il contenuto a un film, cosa rimane? Rimangono il gesto del regista e l’esperienza dello spettatore, portati su un piano di scambio diretto nel quale viene eliminata (quasi) ogni intermediazione.

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Nicolas Winding Refn è tutt’altro che regista analitico, è invece regista viscerale, che con The Neon Demon rinuncia anche all’ultimo appiglio di verosomiglianza per cedere senza compromessi alle proprie fantasie. Posta in partenza questa attitudine, e conquistato il lusso di una completa libertà espressiva, non poteva che essere, The Neon Demon, un film tutto mentale, un film che è puro distillato di stile, sulfureo, oscuro e seducente come un canto di sirena. L’autore lo esprime a chiare lettere, nelle sue interviste: “voglio fare il film che mi piacerebbe vedere”. Che in fin dei conti è lo spirito che muove tutti i registi. Ma pochi hanno spinto questa volontà/desiderio così all’estremo. Il guru Refn, che osa perfino stampare le proprie iniziali sotto i titoli di testa, diventa il brand di sè stesso, imponendosi Esteta venuto a portarci il nuovo Cinema. Quel NWF marchiato a fuoco sembra non solo rivendicare un possesso autoriale, ma anche ricordare al pubblico la fortuna di assistere al proprio spettacolo, quasi fosse, il suo film, un bene di lusso esclusivo. Il film-pellicola come la intendiamo generalmente rappresenta il passato. Esiste solo l’evento NWR™, esiste il marchio NWR™, che garantisce un prodotto di qualità riconoscibile confezionabile e vendibile; quindi ci aspettiamo le Luci NWR™ (da lui curate, ogni volta con un direttore della fotografia differente) o la musica di Cliff Martinez™. A ben vedere, non è forse neppure un grande regista Refn, semmai piuttosto contemporaneamente Genio e Coglione: i suoi film sono capricci, vizi maniacali di un visionario che non ha in realtà molto da dire e che si compiace di ciò, teso com’è con tutte le proprie capacità a riversare sullo schermo le proprie ossessioni sadiche ed erotiche, incollate le une dalle altre da una tenue bozza esile di trama; un gradasso che non si sa se si prende davvero sul serio, che confonde giornalisti e critici, tanto nelle dichiarazioni idiote (“non sono un genio, il pubblico è un genio”), quanto nel lancio dei suoi film, nei quali getta l’amo come se stesse vendendo biglietti di un parco giochi per famiglie (“c’è una bella storia, delle belle battute…andate a vederlo”).

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Così il regista, fattosi marchio vivente, sacrifica l’ultima briciola di umanità e di empatia sull’altare della propria ossessione, in nome dello stile più sublime. La bellezza non è tutto, è l’unica cosa. Questa non rappresenta solo una vaga citazione ma l’unica, vera interpretazione possibile del film, ed è impossibile contraddirla: si noti come l’unico personaggio con una parvenza di umanità, il fotografo innamorato della protagonista, a un certo punto venga fatto allontanare e scomparire; non ha, d’altronde, ragione d’essere nell’universo partorito da Refn, senza spazio e senza tempo, senza passione e senza respiro, quasi in apnea dalla vita, rigido e geometrico, monumento pulsante di riff elettronici e luci stroboscopiche, di specchi che specchiano altri specchi, abitato da figure plastificate e messe in mostra dentro a una vetrina. Bello e brutto, che piaccia o non piaccia, poco importa, poichè The Neon Demon è un film davvero imprescindibile. E’ un film che richiama a sè solo aggettivi assoluti, ponendosi come ciò che di più radicalmente estetico esista oggi in circolazione nel cinema mainstream (Refn si è lasciato indietro l’ambiente indipendente già da un pezzo, e sembra adesso voler demolire il cinema convenzionale dall’interno); è un cinema finalizzato al coronamento di sè senza compromessi, un cinema rivolto a sè, piegato su di sè, un cinema narciso che si specchia. Non c’è dettaglio di The Neon Demon che non sia un richiamo cinematografico; non c’è scena in The Neon Demon che non aspiri ad essere la scena più cool della storia del cinema. Il film non vuole dire o dichiarare niente, e non continua dopo la visione, si riduce invece alla sola esperienza The Neon Demon™, e cessa di esistere dopo i titoli di coda; il film è stato consumato. L’approccio consumistico e anti-artistico ma soprattutto anti-umanistico di Refn porta il film a fagocitare l’estetica di pubblicità, videoclip, riviste di moda, riproposte attraverso un impronta di genere horror che il regista cita senza remore. Il che porta inevitabilmente The Neon Demon ad essere un film glamour e mortifero allo stesso tempo, che sdogana feticismo e necrofilia senza che il proprio creatore accenni al minimo tentativo di spiegare o razionalizzare.

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Possiamo noi certo, razionalizzare. Tanti arrivano facilmente alla conclusione che il film verte sul rapporto tra morte e bellezza, sul cannibalismo tra società dello spettacolo e purezza/innocenza, su come insomma uno si nutra dell’altro al fine di perpetuare un macabro loop. Più nello specifico, crediamo più interessante l’aspetto del film che esamina il rapporto tra contemplazione e possesso; ovvero l’impossibilità del possesso della bellezza (tutti, dal fotografo alla truccatrice, vorrebbero possedere la protagonista, ma non ci riescono) si sfoga nella necrofilia e nel cannibalismo della stessa. Da parte di chi scrive, il tentativo di snocciolare una analisi è più che lecito, ma forse per pigrizia, più ci si prova e più si sente la sensazione di arrampicarsi sui vetri; se la prima parte infatti può sostenere una analisi, è a circa a metà film, dopo una serie di anticipazioni (l’incredibile scena della pantera nella camera del motel) che il film si incanta specchiandosi, si lascia abbandonare al largo, sfilacciando ogni intreccio a favore della pura astrazione, e ritornando infine su un sentiero più interpretabile con la svolta (frettolosa) horror/splatter degli ultimi minuti. E’ nostra convinzione che se Refn ha un merito, è quello di (come detto all’inizio) annullare le intermediazioni tra la propria mente e il pubblico. In questo senso, il regista-marchio può permettersi di mettere in scena ciò che gli passa dalla testa senza sovrapporvi niente per giustificarlo, senza quindi filtri di nessun genere. Che quello che passa nella testa di Refn sia qualcosa di intelligente, è assai discutibile: ma di certo non interessa a Refn dire qualcosa di intelligente. Lui vuole essere il fotografo che cosparge d’oro la modella.

Stefano