Alejandro G. Inarritu: The Revenant

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ALEJANDRO G. INNARITU

The Revenant

(USA 2015, 157 min., col., drammatico)

 

Non cambia l’opinione su Alejandro Gonzalez Inarritu. Gli aspetti che già non ci convincevano nei suoi film precedenti sembrano essersi amplificati, e dunque si giunge alla solita conclusione: I suoi, sono film dalla forma e dalle intenzioni entusiasmanti, ma fondamentalmente costruiti e artefatti. A qualcuno piacerà così e forse avrà ragione; a noi, semplicemente, no.

Parliamo di un film, l’ultimo Revenant – Redivivo, che conta una durata 157 minuti, ma che potrebbero essere 15 ore. Tanto è pesante, purtroppo, il cinema di Inarritu, per chi non ama il suo approccio narrativo e stilistico. La sensazione è ancora, come per Birdman, di stare su una giostra, il che è bello all’inizio, ma poi si sa: c’è chi starebbe ore su una giostra, e chi dopo un poco vorrebbe scendervi.

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Va dato naturalmente merito a Inarritu dello sforzo e della precisione che impiega nella realizzazione dei suoi film. Il movimento di macchina di Inarritu ha infatti un obiettivo condivisibile, quello di tentare di far immergere lo spettatore nel pieno dell’azione. A nostro avviso ciò genera l’effetto contrario: la sensazione è di assistere piuttosto ad un videogame, ad una realtà virtuale che cerca d’essere il più strepitosa possibile, di rappresentare tutto e di far vedere tutto (es: un uomo cade nel fiume, la mdp segue la caduta dell’uomo sott’acqua, con ripresa subacquea…ma perchè?). A parte uno stile che può piacere o meno, e che poco aggiunge a quanto realizzato finora dal regista messicano, il vero problema del film stavolta risiede nel suo impianto narrativo. Mentre la pellicola precedente si fregiava di proporre argomenti intriganti, alleggeriti qua e là da uno humor tagliente, questo The Revenant pare senza mezzi termini un survival-mattone infarcito di sottofondi mistici senza arte nè parte. A questo proposito, l’inserimento di episodi onirici non sarebbe nemmeno fuori luogo; peccato che qui il regista sembra venderci una vera e propria filosofia di tipo mistico/animista (tutta la parte legata alla famiglia del protagonista e ai suoi flashbacks) che pare incollata, alla buona, con il resto del film.

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Un dubbio si fa strada durante la visione, ed esplode nell’assurdo sguardo finale in macchina del protagonista: ma il regista sa esattamente di cosa sta trattando? Cinema esperienzale, cinema viscerale, tutto quello che volete: ma non c’è un ragionamento uno, una sola apertura concessa ad altro che non siano dirupi, frecce, carcasse e freddo. I western cui probabilmente Inarritu si è ispirato contano questioni come la brutalità umana, o la giustificazione della violenza, come assi cardine dell’impianto narrativo (si veda l’ultimo Tarantino per rendersene conto); in Revenant non c’è spazio per affrontare, nè tantomeno per sviluppare e articolare, queste considerazioni. Che piaccia o meno, Iñárritu offre con Revenant un manifesto del suo cinema come tentativo (dichiarato) di spingere ai limiti la potenzialità del mezzo cinematografico, non nel senso però di ricerca estetica(*), quanto piuttosto nel senso di sforzo ginnico, di record sportivo, che esclama tanto vigorosamente quanto vanamente “guarda cosa riesco a fare”. Per noi l’arte e il cinema non sono una prova di resistenza, e nemmeno consideriamo la prova di resistenza di Di Caprio come grande interpretazione. E’ questo un modo di fare cinema opprimente, che lascia un amaro ripensamento: “E’ tutto qui?”

* rimandiamo alla visione del film Essential Killing di Jerzy Skolimowski per rendersi conto della differenza tra cinema esperienzale in senso estetico rispetto al cinema esperienzale in senso ginnico proposto da Inarritu.

Stefano