Dietrich Bruggermann: Le Stazioni della Fede

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Dietrich Bruggermann

Le Stazioni della Fede

(Germania 2014, 107 min., col., drammatico)

 

Nell’arte cristiana le Stazioni della Fede, corrispondenti alla Via Crucis, sono una serie di episodi che ripercorrono la Passione di Cristo. Esse sono 14, generalmente rappresentate da dipinti e sculture. Dietrich Bruggermann, classe 1976, costruisce il suo film d’esordio suddividendo in 14 capitoli la storia di una adolescente nel suo percorso, progressivamente estremo, di devozione religiosa. Ogni capitolo rappresenta una stazione differente, ed ogni capitolo è filmato con piano sequenza in profondità di campo. A parte pochissime eccezioni (tutte, va detto, significative: il momento centrale della cresima) la mdp non si muove, rasentando una austerità parimenti rigida a quella espressa dai suoi personaggi. Aprendosi con una discussione teologica di 15 minuti tra un prete e i membri adolescenti della sua congregazione, Le Stazioni della Fede è un film serio, che si prende anche tremendamente sul serio.

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“Si può amare sia il Rock che i cori di Bach?”. Domanda retorica per lo spettatore, ma non per la protagonista del film: per Maria questa domanda, una tra le tante, è questione di vita (salvezza) o di morte (dannazione). La vicenda a parer nostro non verte, come molti dicono, sul fondamentalismo religioso, bensì su come la stretta osservanza della religione possa impattare la psicologia di una giovane ragazza che, volendo osservare senza compromessi la fede, trova difficile accettare che i suoi coetanei vivano tranquillamente nel peccato. Più nello specifico, il film di Bruggermann è ben scrupoloso nell’osservare il modo in cui gli adolescenti affrontano le proiezioni delle proprie guide, siano esse la Famiglia o la Chiesa, su di loro: nel caso di Maria, la madre ultra-osservante proietta sulla figlia le proprie frustazioni, e il proprio rancore, come svela esplicitamente nel finale; o ancora, il sacerdote che (nella scena della confessione) utilizza i nascenti desideri sessuali della ragazza per giustificare e riflettere sulla propria scelta di castità. In questo sì, il film fa centro: Maria è una ragazza che si fa, cristianamente, carico degli altri. Ecco, diciamo che, se ci limitiamo a vedere il film a questo livello di lettura sociale/psicologica, funziona molto bene.

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E’ proprio nel momento in cui Le Stazioni della Fede punta al mistico/religioso che qualcosa non quadra più. Maria prende sul serio le lezioni sul sacrificio del suo sacerdote, trascinandosi alla morte per regalare la parola al fratello muto (non proprio uno scambio equo, diremmo noi). Se infatti dal tono solenne, e dalla struttura programmatica, il film sembra (apparentemente) criticare la lettura fondamentalista dell’insegnamento religioso, esso invece entra in cortocircuito nel momento in cui miracolosamente il sacrificio funziona; improvvisamente, un film con un chiaro progetto iniziale si sacrifica al “mistero della fede” e alle “imperscrutabili vie del Signore” all’insegna di un anglosassone humour nero. Dubbi emergono anche sul piano formale: La serietà della messa in scena da una parte affascina, dall’altra stanca. Da una parte, essa garantisce una certa eleganza, anche dove non ti aspetti, cioè nelle riprese all’aperto, quelle dall’impostazione meno teatrale e più cinematografica; e laddove ad essere catturati sono i momenti più semplici, come tra Maria e il fratellino, o l’amica Bernadette (l’unica, tra l’altro, che sembra vantare un grammo di intelligenza). Proprio non funziona invece con altre situazioni e personaggi, come ad esempio la madre, ai limiti della caricatura, o del padre, del quale a malapena notiamo la presenza. Dopo il trascorso “miracoloso”, la pellicola per fortuna torna sui suoi passi e finalmente, dopo un calvario di quasi due ore, fà la sua mossa: il film esce dal rifugio del mistero e, attraverso il dialogo finale, trafigge come una spada.

Dopo gli eccessi di Ulrich Seidl, dopo il sopravvalutatissimo Ida, anche Le Stazioni della Fede rimane un film interessante che attraversa tangenzialmente il discorso religioso, senza mai centrarlo appieno; per serietà e intelligenza superiore certamente agli altri due, e molto più simile, piuttosto, all’indimenticato Corpo Celeste di Alice Rohrwacher e allo splendido Hadewijch di Bruno Dumont, quello sì, capolavoro straordinario, insieme politico, mistico e intimo.

Stefano