Paul Thomas Anderson: Vizio di Forma

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PAUL THOMAS ANDERSON

Vizio di Forma

(Inherent Vice, Usa 149 min., col., commedia)

Con Paul Thomas Anderson è sempre una questione di aspettative. In teoria, il suo ultimo Vizio di Forma avrebbe potuto avere le carte in regola per imboccare una via d’uscita da quel percorso di cinema instabile e “difficile” inaugurato con Il Petroliere e sublimato con The Master in direzione di un ritorno ai rassicuranti lidi di Magnolia e Boogie Nights: complici un cast di grido (Joaquin Phoenix, Josh Brolin, Owen Wilson, Reese Whiterspoon) e una insospettata sensibilità comica. Avrebbe potuto essere, dunque, un ritorno al successo di quei film corali costituiti da una solida matrice altmaniana e sviluppati attorno a vicende e personaggi tesi inesorabilmente a incontrarsi e scontrarsi tra loro, contribuendo a gettare le basi di un affresco sull’America che, da allora, il regista continua a raffigurare. In pratica, però, spiazza di nuovo. Il cinema strepitoso e stratificato di The Master compie un grosso passo in avanti e quell’affresco d’America che allora mostrava contorni chiari e definiti, sembra farsi adesso sempre più astratto: le linee, i colori, i contorni cominciano a non esser più distinguibili, e sembrano guadagnare in densità quello che vanno perdendo in linearità. La pluralità di personaggi e di situazioni tipica degli esordi quindi ritorna, ma è come se quei personaggi fossero gettati alla rinfusa in un caos allucinogeno sullo scenario di un mondo infestato da una incessante paranoia; le coordinate a cui c’eravamo aggrappati nel tentativo di circoscrivere e definire il cinema di Paul Thomas Anderson si sono modificate; lo spettatore si trova nuovamente senza rotta nel caos.


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Vizio di Forma, ultimo, grande film di quello che è il maggiore autore americano oggi, si rivela pellicola costruita come una sorta di teatro dell’assurdo in superficie, e appena al di sotto di essa, come languido poema sulla fine di un’epoca e di un amore, ma illuminato da una scintilla di speranza in profondità, per chi ha voglia e coraggio di vedere e capire. Adottando il romanzo omonimo di Thomas Pynchon, scrittore più sfuggente d’America, Anderson torna a esplorare la contraddizione intrinseca dell’uomo e dell’America mettendo a fuoco (o fuori fuoco) un altro pezzo di storia statunitense: l’articolata complessità nella relazione tra capitalismo e religioni di Il Petroliere (ambientato agli inizi del 900), mutata nell’ambigua relazione di interscambio tra verità e falsificazione di The Master (ambientato tra anni ’40 e ’50), trova una nuova forma nella commercializzazione ideologica della controcultura tra anni ’60 e anni ’70, quando le lunghe braccia del sistema inglobarono ciò che fu l’utopia dell’amore e della droga, e quegli ideali una volta autentici (dai sostenitori tanto vaghi quanto riluttanti a ogni forma di organizzazione) la cui fine cominciò proprio con la strage compiuta da una setta di maniaci capitanata da Charles Manson. Come The Master anche Vizio di Forma è un film della (e sulla) memoria di un passato mitico e irrecuperabile, e c’è sempre una ragazza che lo abita, che compare e svanisce come un fantasma; come in The Master sembra esserci, forse per questo, una velata e soffusa malinconia che trasuda da ogni singola inquadratura; e pur insieme alle sue componenti comiche, Vizio di Forma rifiuta ogni convenzione drammatica non meno di quanto faceva The Master (nel quale non è il film a essere freddo, ma lo spettatore ad essere dipendente da convenzioni drammatiche hollywoodiane e quindi non abituato, o addirittura respinto, da un impatto emotivo enorme sostenuto da componenti squisitamente cinematografiche, pure e dirette); ancora, come per The Master il film non sembra narrativamente o stilisticamente “orchestrato”, andando a configurarsi piuttosto come una specie di libera associazione di elementi apparentemente inconciliabili (politica, crimini, teorie cospirative, ricordi nostalgici, black power, intercettazioni e agenti sotto copertura, speculazioni edilizie ecc.ecc.) uniti da un filo conduttore che forse esiste soltanto nella mente fumata del suo protagonista; una jam session nella quale spiccano assoli eccentrici (le previsioni astrologiche della narratrice Sortilege) e duetti brillanti (i tira- e-molla tra Doc e il suo opposto/nemesi Bigfoot).

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Il cinema di Anderson però non ha pretese di spiegare l’America, tutt’al più ha una sete irrefrenabile di capirla, soprattutto perchè l’America di Anderson è praticamente illeggibile, inspiegabile. Gli anni del film sono quelli di Reagan in California e di Nixon alla casa bianca; sono gli anni in cui le speranze dell’idealismo passato hanno già lasciato il posto alle “vecchie forze della paura e dell’avidità”, che siano traffici di droga dal Vietnam, istituti di recupero per ricchi che hanno perso la retta via, o insulti all’ambiente edificati in calcestruzzo; sono gli anni in cui i veri hippie se ne stanno nascosti, appartati, mentre attorno a loro ciò che prima era ancora intatto e libero, ora è diventato una moda ad uso e consumo di chiunque possa pagare; il sistema e la lotta contro il sistema non sono più così distinti, quasi come se ci fosse in atto una forma di scambio osmotico tra l’una e l’altra: militanti neri del Black Power condividono ora idee con la Fratellanza Ariana; innocui musicisti surf si ritrovano adesso informatori di losche corporazioni; le droghe, da forma di liberazione sono diventate amplificatori di paranoia; la stessa cultura di lotta al sistema attraverso la droga è istituzionalizzata e capitalizzata nei suoi processi produttivi (produzione, taglio, trasporto, distribuzione, consumo e persino disintossicazione) dallo stesso Sistema che ipocritamente mostra di combatterla. Da qui la complessità bizantina dei dialoghi che, come onde, sembrano infrangersi, accumulandosi non per costruire, bensì per demolire gli stessi dialoghi che li hanno preceduti, con l’aggravante di una colonna sonora che spesso sembra sovrastare quelle parole. I continui imput massicci riversati sullo spettatore, quello schiacciarsi di informazioni una sull’altra, quella disseminazione di informazioni spesso insignificanti, quelle svolte che sembrano vanificare ciò che si è appreso in precedenza, quell’insistenza di confondere e stordire provengono certamente dalla scrittura di Pynchon (ricalcato sullo schermo in maniera quasi letterale, peraltro), ma Anderson la usa per dire: sì, è una società assurda, e sì, ormai nulla è più quello che sembra; è l’inizio di una condizione più presente che mai, quella del non essere più capaci di “star dietro” a quello che ci sta intorno.

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Ma soprattutto, quelli di Vizio di Forma sono gli anni in cui, ed è questo che conta davvero per il protagonista Doc Sportello, la donna che una volta si amava, che una volta (proprio perchè insieme a lui?) era libera, si trova ora al servizio di chi può offrirle agio e ricchezza, anch’egli figliol prodigo scappato e poi redento dal Sistema: in fondo, questo film potrebbe solo parlare di questo amore, come, in definitiva, contava solo la storia d’amore tra Quell e Dodd in The Master (mentre tutto il resto – i riferimenti a Scientology – erano come un pretesto). Oltre ad essere un film sulla storia e sulle mutazioni dell’America, che si inserisce quindi con scioltezza nel resto della filmografia andersoniana, Vizio di Forma è quindi soprattutto una storia d’amore, che puntella di momenti stupendi il film: la scena iniziale, la scena della corsa sotto la pioggia, la scena del divano e la scena finale scandiscono l’evolversi tutta mentale di una relazione, così narcotica che pare non compiersi neppure nella realtà  della pellicola; alcune apparizioni della ragazza sembrano il frutto della immaginazione/fantasia del protagonista (soprattutto la scena del divano – “sei stata via 3 ore?”). L’amore perduto non raffigura altro che la malinconica incarnazione di tutto ciò che Doc ha perso, di tutto ciò che l’ideale di libertà del peace & love, della droga e dell’ingenua musica surf, hanno perso. L’unico a parte il protagonista ad essere rimasto uguale nonostante la Storia risulta paradossalmente il suo esatto opposto e complementare Bigfoot (come si viene piano piano a capire nella seconda parte), un detective vecchio stampo che sembra uscito da un vecchio film nel quale esiste ancora una distinzione tra buoni e cattivi, reliquia anche lui di un’America che non c’è più (c’è mai stata?); e così anch’egli consumato dalla malinconia nonostante la facciata di duro (“non è più tempo per Bigfoot – niente più diritti cinematografici per Bigfoot”).

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A questa complessità tematica e narrativa si affianca uno stile che, come molti hanno notato, è significativamente inverso al virtuosismo al quale Anderson ci ha abituato. Il discorso è complesso: se i temi affrontati da Pynchon ed Anderson sono veri e sostenuti anche da fatti realmente accaduti, è anche vero che Anderson non sembra aver voluto rappresentare una California reale, ma di nuovo, un’allucinazione, o meglio, l’idea che Pynchon rievocava della California in quell’epoca (sbaglia chi parla di “grande ricostruzione storica”); dopo tutto, ci sono palazzi a forma di zanna, e ci sono ristoranti in cui si possono ordinare crocchette di medusa. Nella messa in scena quindi, l’opulenza massiccia di temi e di avvenimenti presenti nel testo di Pynchon provocano una reazione inversamente proporzionale all’interno dello stile barocco di Anderson, noto proprio per l’utilizzo virtuoso della steadycam, per i vorticosi piano-sequenza, per le carrellate lunghissime, per l’allestimento di scene cariche di dettagli. Domina quindi, nella messa in quadro, una tendenza al primo piano fisso, e a lunghissimi takes; mentre, nella messa in serie, campi/controcampi e un utilizzo smodato di dissolvenze incrociate, che hanno un ruolo ben più articolato della semplice divisione, cioè quello di sviluppare un immagine/episodio narrativo all’interno di quello corrente. Risultato di ciò è una maggiore propensione all’indagine psicologica e allo studio dei gesti, come se ogni inquadratura si caricasse di un proprio peso specifico (questo accadeva anche meglio in The Master, film ben più ancorato alla forma di Vizio di Forma – giochi di parole a parte), al prezzo però di un rallentamento sostanziale del ritmo del film. La fotografia, poi, è qualcosa di meraviglioso: Anderson ha ricreato una pellicola rovinata in cui gli effetti di luce sembrano opacizzati, a partire da una lattiginosa luce giornaliera che sembra disfare le cose, in cui i neri non sono proprio neri, e da una luce notturna dai forti connotati cromatici (dominano il blu - colore della malinconia - e il rosso - colore della passione), la messa a fuoco è lenta e misurata, senza considerare i numerosi “vizi di forma” (quali la scena degli hippie al banchetto) che il regista si concede.

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Se proprio fossimo costretti a dare una definizione di Vizio di Forma sarebbe quella di un film che rievoca i classici del noir (Il Lungo Addio del regista ispiratore di Anderson, Robert Altman, in primis), genere ideale per  esprimere una realtà che non si può o non si vuole comprendere, declinato peraltro al cinema della Nuova Hollywood (culminato con lo scandalo Watergate), in cui la trama, di solito proprio confusa e inestricabile, non è così importante quanto lo è l’ evocazione di un sentimento di insicurezza e sospetto. Un film che forse non è solido ed “universale” come The Master ma ugualmente pregnante di un enorme nesso di significati e rimandi. Con una grossa differenza rispetto al precedente e a quei classici da cui trae ispirazione, cioè che, nonostante tutto, Vizio di Forma è un film a lieto fine: in un finale straordinario, il sorriso che rivolge Doc al suo specchietto retrovisore illuminato da un faro (ennesimo segnale di un mondo che lo segue, lo intercetta, lo controlla), non lascia spazio a dubbi.

Stefano