Damien Chazelle: Whiplash

DAMIEN CHAZELLE
Whiplash
(USA 2014, 125 min., col., drammatico)
Dal calderone Sundance, dove ha vinto premi sia di pubblico che di critica, arriva in Italia questo Whiplash, accolto anche su questa sponda dell’Atlantico con grande entusiasmo. L’entusiasmo è comprensibile: l’opera del giovane Damien Chazelle è una esperienza cinematografica-musicale di grande effetto. Se c’è qualcosa che ricorderemo tra 10 anni di Whiplash, saranno le scene isteriche alla Sergente Hartman di Simmons e le scene musicali di grande tensione, ritmo e dinamicità, dunque: la tecnica, e strettamente la tecnica (si badi: non la forma, nè l’estetica; altrimenti affronteremmo tutt’altro discorso), della pellicola. Ma dal nostro punto di vista, del resto del film ci ricorderemo ben poco. Per comprenderne meglio la natura, bisogna considerare un paio di elementi sull’origine di questo lungometraggio: il fatto che nasce da un cortometraggio, e che sarebbe tranquillamente potuto rimanere tale; e che il suo autore era un musicista lui stesso. Questi due elementi dicono molto sul valore effettivo della pellicola.

Da una parte abbiamo un film veramente convincente nelle scene musicali, merito di un regista ex-musicista che dimostra di “sentire” la musica e farla “vedere” (questo il lato positivo; c’è però anche un lato negativo che affronteremo poi), grazie soprattutto ad un montaggio che fa aderire l’immagine alla grammatica musicale, alle sue pause e variazioni (e diciamolo pure il nome di chi è merito: Tom Cross); dall’altra abbiamo un film per niente innovativo o originale, tutt’al più assai convenzionale. Perchè, al netto delle tanto celebrate scene musicali, ciò che rimane di Whiplash si pone appena al di sopra dello standard di film-sundance, piuttosto mono-dimensionale e prevedibile. Fin dalla prima scena si capisce dove il film voglia andare a parare: il confronto d’ammirazione/odio allievo-maestro, con qualche meditazione aggiuntiva (“There are no two words in the English language more harmful than: Good Job”). Ma ciò che davvero ci respinge non è la prevedibilità di un film che fa di tutto per essere originale e cool, ma la tendenza di Chazelle ad affidarsi a convenzioni di sceneggiatura per renderlo forse più solido e condivisibile: una ragazza-della-porta-accanto piazzata dentro solo per essere scaricata dal protagonista, e quindi per metterne in risalto l’ossessione (modello d’ispirazione: Hollywood; è sempre li che vogliono andare i ragazzi del Sundance, dopotutto), il padre con il quale il protagonista ha un rapporto conflittuale – ovviamente dispensatore di lezioni morali. L’operazione funziona meglio dove invece non ci sono lezioni morali o personaggi di supporto, nelle scene, cioè, tra il protagonista e il maestro, le uniche davvero significative. Non è quindi un caso che il film sia nato da un cortometraggio, e che, probabilmente, sarebbe stato più convincente in quel formato: ci sono dei momenti in cui sembra che il film sia tutto un pretesto per mettere in scena le sequenze musicali.
Whiplash
Da questo aspetto è derivato il secondo elemento, cioè la formazione jazzistica di Chazelle, e il modo in cui questa formazione influisce sullo spirito della pellicola, che pare quindi essere unicamente incentrata sulla tecnica. Chazelle indugia sui primissimi piani degli strumenti, sui dettagli, con la maledetta, insistente e focale lunga (perchè, che film indipendente sarebbe senza focale lunga?) che fa tanto indie; indugia sulla tecnica esibita insomma. Allo stesso modo, il jazz mostrato in questo film è un jazz di solo virtuosismo. Sappiamo che il jazz richiede tanta tecnica, tanto studio, ma il jazz rappresentato in questo film sembra esclusivamente finalizzato a istruire una manciata di studenti ad essere bravi esecutori, per far emergere quello che esegue meglio, che improvvisa meglio (il finale), che suona, insomma meglio: concedetemi: una gara a chi ce l’ha più lungo. Abbastanza desolante, no?
Stefano