Rithy Panh: L’image manquante


IManquante

RITHY PANH

 

L’IMAGE MANQUANTE

 
(Camb., Fr. 2013, 95 min., col., documentario)

 

In questo personale percorso documentaristico, Rithy Panh mostra le atrocità del regime di Pol Pot. Nel 1975 le truppe dei Khmer Rossi entrano a Phnom Penh, capitale cambogiana. Il regista ha una decina d’anni e fino al marzo di quell’anno, la sua vita era un idillio, un sogno, così come per numerosi cambogiani. Nessuno immaginava che da lì a qualche anno circa il venti per cento della popolazione sarebbe stata sterminata e i restanti “borghesi” sarebbero stati confinati nei campi di lavoro/sterminio. Fra questi, c’è anche Rithy Panh. Da lì a poco vedrà morire tutta la sua famiglia.

L’image manquante è, senza mezzi termini, un film importante. Il suo statuto non è dato tanto dal contenuto,

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dal necessario ricordo di quei terribili anni cambogiani, ma dall’impronta data alla narrazione. La sola informazione non basta, anche perché alcune immagini “mancano”. La censura di Pol Pot è totale: metri su metri di bobine sono distrutte, così come le fotografie, senza parlare poi dell’unidirezionalità data ai media. Rithy Panh, per non dimenticare, è costretto a trovare uno stratagemma: le statuette d’argilla. Esse colmano quella mancanza d’informazione, ma allo stesso tempo trasformano il documentario in qualcosa d’altro, rendendolo unico. Andiamo con ordine.

A fine pellicola, lo spettatore è stravolto dalla potenza di ciò che ha visto. La carica delle immagini proposte da Rithy Panh sconvolge gli stati d’animo del pubblico perché non c’è il consueto distacco fra l’autore e l’oggetto/soggetto dell’indagine. In L’image manquante essi, coincidono. Il regista racconta la sua storia e nel contempo quella di un intero stato, mescolando magistralmente la classifica separazione fra chi effettua la ricerca documentaristica, solitamente esterno ai fatti, e chi ne è il protagonista. In questa “non delimitazione” dei confini è assorbito anche lo spettatore che solitamente trovava ancoraggio nel filtro del regista. Il pubblico, allora, si lascia inondare dalle emozioni del racconto, del regista e da ciò che vede.

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Ciò che può essere visto, si diceva, è stato cancellato dai Khmer Rossi. Rithy Panh ha sostituito le immagini mancanti della tragedia, con le immagini del proprio ricordo e della propria creazione. Ricostruendo le varie tappe del genocidio con delle statuette d’argilla e con una scenografia da film d’animazione, il regista si propone come testimone di un passato doloroso troppo spesso inabissato dall’odio e dalla sofferenza. Non si tratta, e qui risiede il punto cruciale, di una semplice enumerazione dei dati posti in successione cronologica, ma di una vera e propria via personale e lirica che va al di là del reale documentaristico. Le statuette di cera (per altro non cotte, quindi effimere) non sostituiscono solo l’immagine mancante, ma la reinterpretano con i sogni e le speranze del regista.

L’image manquante non solo recupera la memoria oggettiva, ma rende quella soggettiva, legata ai sentimenti, ai sogni e alle sensazioni del regista, di dominio pubblico.

 

Mattia