Lisandro Alonso: Jauja
LISANDRO ALONSO
JAUJA
(Arg./Mex. 2014, 108 min., col., drammatico)
Il rapporto che Lisandro Alonso sta instaurando con l’arte cinematografica è di natura estetica. Ne sono prova in Jauja i continui cenni d’amore incondizionato: l’uso del 16 mm, il formato 4:3, i lunghi piani sequenza, una fotografia ricercata e un certo grado d’indipendenza che non guasta mai (ben lungi dalla deriva Sundance). Ora la domanda da porsi, come in tutti i casi del genere, è la seguente: si tratta di sola forma o Jauja lascia qualcosa d’importante agli spettatori? I Cineuforici sono convinti che il lavoro di Lisandro Alonso sia in grado penetrare la superficie formale.
Il cartello iniziale è chiaro: Jauja è una declinazione del mito dell’Eldorado, una terra leggendaria che ha portato alla perdizione numerose persone nel tentativo di trovarla. Nel mito di Alonso ci si perdono un capitano danese, sua figlia e dei militari: impossibile ritrovarsi.
Quello che potrebbe essere definito un western lunare, è in realtà uno studio dettagliato dello spazio diegetico ed extradiegetico in
tutte le sue varie declinazioni teatrali e cinematografiche. L’Argentina ripresa da Alonso è inizialmente uno spazio teatrale a inquadrature fisse nelle quali compaiono come figure immobili i vari personaggi. L’attesa, il riposo e la noia del gruppo di soldati sono ben espressi dalla scelta estetica: la stasi narrativa è la stasi della cinepresa e viceversa. In tal modo lo spettatore si trova di fronte a dei veri e propri dipinti. Anzi, la fotografia di Timo Salminen (lo stesso dei film di Aki Kaurismaki) permette un passo ulteriore: i primi minuti del film sono delle vere e proprie istantanee. Se solitamente è facile e banale accostare alcune inquadrature a dei quadri, meno lo è l’accostamento a delle fotografie. La sensazione magistrale data dal lavoro di Salminen è quella di trovarsi di fronte a degli scatti d’epoca (complice magari il 4:3 e la vignettatura) colorate successivamente. Questo procedimento ha reso la Patagonia a dir poco conturbante, lunare ed extraterrestre.
Non appena la figlia sparisce con il suo amante, la pellicola si trasforma e diventa un western. Anzi, sarebbe più corretto sostenere che il film rimane lo stesso, ma muta l’approccio dello spazio. Le istantanee iniziali sono sostituite da quelle classiche del genere in questione, movimenti di macchina che lanciano il protagonista verso la linea dell’orizzonte e oltre, la sensazione dell’infinità del luogo e il ripetersi di paesaggi similari. Si diceva che il film rimane lo stesso, perché il cambiamento di prospettive non modifica il soggetto del film, ossia l’amore di un padre per una figlia persa nella Patagonia desertica. Lo studio dello spazio è un’analisi a tutto campo, che sfocia nella profondità, nei movimenti e nella fissità dell’inquadratura.
L’Argentina espressa nei quadri fissi e quella del western, per intenderci, sono essenzialmente legati al concetto cronologico della nostra temporalità. Nonostante, nei primi frangenti, essa appaia dilatata, o fissata come uno scatto fotografico, è possibile trovare ancora un ancoraggio con la linearità della narrazione. Quest’aspetto è ancora più evidente nelle sequenze western, dove il genere esige questa costruzione.
La sorpresa, però, è dietro l’angolo. Lasciando da parte una narrazione classica, che pur si addiceva egregiamente a Viggo Mortensen, Lisandro Alonso la trasforma (con la bellissima sequenza in notturna) in qualcosa d’altro, più personale, più psicologico. Entrando nella sfera intima del personaggio, ma anche dell’autore e dello spettatore, lo spazio e il tempo conseguentemente mutano. Si passa dal reale, a un reale leggermente “spostato” figlio dell’immaginazione. Il personaggio di Mortensen non si è solo perso fisicamente, ma anche “inconsciamente”. Lo spazio non è più quello fisico e il tempo non è più quello cronologico: la narrazione è poesia e sogno. Da un lato Jauja è figlio di Herzog e Weir; dall’altro è figlio di Sokurov (continui i richiami faustiani) e, osiamo sostenere, di Tarkovskij (incredibile la sequenza finale “contemporanea”). Facile trovare i progenitori cinematografici del regista argentino, difficile invece ammettere che si è di fronte a un autore che sta marciando in un percorso tutto personale. Ci sono buone speranze.
Mattia
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