Abel Ferrara: Pasolini
ABEL FERRARA
Pasolini
(Italia/Francia 2014, 86 min., col., drammatico)
“Me ne frego di chi ha ucciso Pasolini!”
Abel Ferrara
Pasolini respira ancora nell’ultimo film di Abel Ferrara; Pasolini è più vivo nell’ultimo film di Abel Ferrara di quanto avrebbe potuto esserlo in qualsiasi altro biopic realizzato sul regista, scrittore e poeta bolognese.
Bisogna innanzitutto mettere in chiaro che Pasolini non è un biopic. Pasolini è certamente un film su Pasolini, ma è prima di tutto un tassello ulteriore della filmografia, dello stile e della poetica di Abel Ferrara, che fa seguito al micidiale – e forse lo supera – Welcome to New York. Anche qui troviamo un Ferrara coerentemente pessimista (“l’Inferno sta salendo da voi, Siamo tutti in pericolo”) eppure capace di slanci altissimi e, meglio ancora, di gioco e sperimentazione cinematografica, nello spirito della precedente pellicola ma a livelli di complessità molto superiori. E’ Ferrara puro, stra-bordante e compresso a stento negli 86 minuti più densi e complessi dell’ultima Mostra del Cinema.
Tralasciando le reazioni superficiali e vuote di certa stampa fin dall’anteprima, e i pregiudizi di chi ha accolto la pellicola con i fucili spianati prima ancora di averla vista, o di chi si aspettava chissà quale rivelazione, quel che rimane è un film che cresce dentro comunicando qualcosa di più, e di più profondo ad ogni visione. Visione che, doppiata per le sale italiane, rende l’opera più accettabile da una parte, privandola, dall’altra, del suo fascino ambiguo originario, derivato da un’alternanza di italiano e inglese non solo generata da naturali esigenze linguistiche dell’attore americano Willem Defoe, ma anche da un significato peculiare: la resa in termini linguistici di una personalità complessa, che aveva in Pasolini due vie principali, quella dell’uomo (la lingua italiana) e quella dell’intellettuale (la lingua inglese). Allo stesso modo nella sua natura questo film si divide tra impulso espressivo (l’incontinenza comunicativa e l’approccio molto diretto tipici del regista newyorkese) e rigore stilistico. Impulso espressivo che emerge nell’urgenza di concentrare una mole così significativa di tematiche e allusioni della poetica pasoliniana (non si contano rimandi e accenni ai suoi film) in poche sequenze, per cui troppo sembra essere detto in troppo poco tempo. Ma soprattutto è evidente un rigore stilistico, che abbraccia ogni compartimento tecnico della pellicola, dalla disciplinata messa in scena al gioco di chiaroscuro che illumina il volto e i giri notturni del protagonista (il direttore della fotografia è italiano – Stefano Falivene – ed è riuscito ad evocare il clima di tensione di quegli anni di piombo, solo attraverso l’uso di ombre, che per tutta la durata del film alludono ad un rischio celato e imminente). La combinazione di queste due caratteristiche è volta a rispettare uno controllato schema onirico che porta a scivolare senza soluzione di continuità nei meandri dell’ossessione pasoliniana. Ecco, sì: piaccia o no, bisogna arrendersi al fatto che Pasolini è un film tutto mentale, tutto suggestione, che mette il pensiero del protagonista davanti al personaggio-protagonista, fino al punto di oscurare il corpo fisico, mettendolo da parte, fuori quadro. Paradossalmente, non è che si veda molto il corpo di Pasolini in Pasolini.
Pasolini
Pasolini è per tutti questi elementi e molto altro, una pellicola che si mette continuamente in gioco, che non si adatta ad una sola presa di posizione, che non si piega e non si omologa in nome della veridicità a tutti i costi. E’ un film, soprattutto che non finisce con la morte scontata del suo protagonista, senza peraltro farne un santino. Davvero un film che continua a vivere, che parla di un uomo (o meglio, di un pensiero) che continua a vivere. Così, davanti a un mondo visto dalla scala per un paradiso che non esiste, “Qualcosa succederà, prima o poi”.
Stefano