Alfonso Cuaron: Gravity

ALFONSO CUARON

Gravity

(Usa/Uk 2013, 90 min., col., fantascienza)

Gravity è un giocattolo colossale. E’ cinema come era stato pensato alle sue origini: intrattenimento e sperimentazione. Il treno in corsa verso il pubblico dei fratelli Lumiere era intrattenimento (la gente pagava il biglietto per comprare un’esperienza sensoriale, non certo per dilungarsi in riflessioni filosofiche) e sperimentazione (lo studio, agli antipodi, di quello che il cinema era in grado di “fare”). Il film di Cuaron è un esperienza cinematografica così terminale da provocare una risposta (anche) fisica sullo spettatore. Durante e dopo la proiezione, è difficile non avvertire una sensazione di spaesamento, ci si guarda in giro per cercare appigli, punti fermi. Questo è dovuto a due fattori: all’efficienza del 3D e a un costante moto rotatorio/inerziale.

Va detto che in Gravity il 3D, che noi abbiamo sempre un pò snobbato, se non acquisisce davvero senso diciamo che ci arriva molto vicino ad acquisirlo. Il 3D di Gravity è davvero funzionale e non una mera decorazione utile ad alzare il prezzo del biglietto di qualche euro (la sua mansione di lievitazione economica funziona molto bene, comunque). Relativamente all’uso del 3D, in confronto a Gravity, lo strombazzato Avatar è cosetta da nulla. (sebbene non sia ancora riuscito a vedere l’ultimo di Herzog che dal collega è stato celebrato, tra le altre cose, anche per questo aspetto). Un’altra componente che fa di Gravity una vera esperienza cinematografica è il moto circolare che avvolge ogni singola inquadratura quasi ininterrottamente dai primi secondi ai titoli di coda. Non tanto la circolarità (siamo nello spazio) quanto quella sensazione di moto continuo, di inesorabilità, nell’ambiente più grande e terrificante che si possa concepire: l’universo. Gravity è un film sulla vertigine.

Per fare un esempio, in una scena impressionante, la dottoressa specialista Riley è ripresa mentre ruota nello spazio senza alcun potere di controllo sul suo movimento (Cuaron ci offre una prospettiva esterna e oggettiva del suo corpo); lentamente ci avviciniamo al suo casco e vediamo la sua faccia di profilo, la sua espressione (Cuaron ci offre una prospettiva umana che mette in evidenza lo sgomento della protagonista); infine il punto di vista ruota di 90 gradi e vediamo ciò che vede la protagonista, ovvero la volta celeste in rotazione (Cuaron nell’apice della partecipazione spettatore-spettacolo ci offre una prospettiva soggettiva e quindi “siamo” la protagonista). Il tutto è finalizzato a cominicare una sensazione di impotenza dovuta alla condizione obbligata di inerzia, che il nostro corpo e la nostra mente difficilmente riesce a tollerare. Un’angoscia fisica quindi.

Gravity è costato una cifra…spaziale (concedetemelo): 100 milioni di dollari. Eppure niente barche trasportate da elicotteri e niente transatlantici che impattano con gli iceberg: stiamo parlando di un film in cui informatica e ingegneria robotica contano più di tutto il resto, di un film realizzato per un’alta percentuale in uno studio pieno di computer. Questo basta per dare un idea della rivoluzione in corso nell’intrattenimento cinematografico; cos’è, allora, che ci trattiene dal dire che Gravity è, se non un capolavoro, una pietra miliare/rivoluzionaria del cinema moderno? Semplice: lo stacco stratosferico (non posso fare a meno di usare questo lessico con questo film) che separa l’impianto tecnico da quello narrativo. Perchè se tecnicamente il prodotto è di una qualità eccezionale, se il livello di realismo fisico è insuperabile (il collega ha rimarcato ad esempio le modalità con cui la colonna sonora riesce a colmare la mancanza del suono; insomma: gli espedienti cinematografici al servizio della fisica), se l’effetto claustrofobico/angoscioso di quell’infinito sempre mostrato è a un livello di vessazione, sul piano contenutistico non c’è confronto. Perchè si avverte, purtroppo, l’urgenza di Cuaron di annettere una componente umana alla vicenda, anche al costo di adottare un ottica conformista. Non ci sono piaciute, ad esempio, le scene della Bullock che si addormenta in posizione fetale (situazione ridicola nel contesto), i riferimenti di troppo alla maternità (cavo/respiratore = cordone ombelicale, la rinascita sulla terra) o le confessioni con tanto di lacrimuccia a gravità-zero; elementi da melò che accusano l’affanno di un regista troppo distratto a dover “farci piacere” quello che vediamo e a dover “farci provare empatia” con la dottoressa (che all’inizio è una dura e fredda scienziata e alla fine una donna simpaticissima e ironica, com’è successo?).

Cuaron è un vero esperto di capacità tecniche, un regista dallo stile acrobatico e spettacolare. Epurato da certi passi falsi e un pò troppo facili, e scarnificato quel corpo di survival movie,  il film sarebbe un puro scheletro di rarefazione assoluta, e Gravity si collocherebbe ai limiti del cinema più sperimentale.

Stefano Uboldi