Mostra del Cinema di Venezia: Giorno 5. Frears, Qu, Franco, Avranas

Fifty-Fifty.
Partiamo da quelli belli:

Stephen Frears: Philomena (Regno Unito)

Il film che ha miracolosamente messo d’accordo pubblico e critica, che ha superato ogni possibile aspettativa , che ha convinto anche il più inguaribile detrattore del regista (io non mi colloco nella lista, ma quasi) è Philomena, attualmente il più credibile candidato per il Leone. La storia segue le vicende di un ex-giornalista della BBC che aiuta una donna a ritrovare il figlio strappatole via dalle suore nel convento dove viveva. Essere in sala, godersi un bel film, avere una spettatrice sulla sinistra che si asciuga le lacrime e uno a destra che ride di gusto: la ricetta funziona alla grande. I 90 minuti scarsi di Frears, regista della middle-class, sono un esempio di ricercato equilibrio tra scrittura (pura british wit: battute misurate col calibro), interpretazione (la Dench e Coogan, dire perfetti è usare un eufemismo) e regia (90 minuti di tempismo sorprendente e leggerezza). Uno potrebbe obiettare (il nostro lato oscuro e snob) che è solo un film ad impianto convenzionale e senza grandi ambizioni. Ce ne fossero, di film così: sul Lido si è parlato, in mezzo a tanti film cupi e angosciosi, di durata improponibile o di natura sperimentale, di ritorno all’equilibrio classico del cinema di una volta, votato a emozionare e far pensare allo stesso tempo. Di emozioni ci sono, e sempre espresse nella maniera più composta possibile (dopotutto parliamo di un film inglese), autentiche e mai forzate, così come di riflessioni (anche qui mai imboccate allo spettatore) che vanno dalla religione (in una dichiarazione Frears ha detto: “Spero che il Papa vada a vedere Philomena”) alla maternità all’omosessualità; sarebbe facile cadere nel melenso e nella retorica, e invece tutto scorre senza pedanteria o moralismi. Non ci sorprenderebbe quindi se Frears tornasse oltre la Manica con un sacco di premi in mano.

Vivian Qu: Shuiyin Jie (Cina)

Ottimo film presentato nella sezione Settimana Della Critica. Chi infatti volesse sapere qualcosa di più sulla potenza della Cina contemporanea, sui paradossi e le contraddizioni che la distinguono, dovrebbe correre a vedere questa pellicola della giovane regista indipendente Vivian Qu, il cui cinema si colloca idealmente sulla scia del grande Jia Zhangke che vinse il Leone nel 2006 con Still Life. La capacità di analisi della Qu è micidiale. Per mettere in scena l’ossessione del controllo, la paranoia di essere osservati da qualcuno (non è dato sapere chi), a chi poteva attingere la regista se non a Kafka? Anche qui abbiamo un ragazzo comune, stagista per un’agenzia che fa rilevamenti topografici, che arrotonda installando impianti di sicurezza; saranno i suoi stessi mezzi di controllo, oltre che mettere il naso dove non dovrebbe (complice, ovvio, una ragazza), in una strada che sulle mappe non dovrebbe esistere (il titolo in cinese significa Strada-Trappola) a farlo mettere nei guai con organizzazioni segrete dagli scopi imprecisati, così come imprecisate sono le accuse (come ne Il Processo) mosse nei confronti del ragazzo da parte del Partito. L’incubo che attraversa il ragazzo è una metafora di chi si ostina a non voler guardare, e del faticoso percorso di “guarigione” che ne consegue.

E passiamo a quelli meno belli:

James Franco: Child Of God (Usa)

Il “Figlio di Dio” è il folle Lester Ballard del romanzo omonimo di Cormac McCarthy. Togliamoci il dente: quello che fa Lester Ballard nel film è, oltre a vivere una vita selvaggia di caccia e solitudine, praticare la necrofilia. Ballard non fa alcuna distinzione tra il bene e il male. Quando trova una donna morta in una macchina sul ciglio della strada, il primo istinto che prova è quello sessuale: così la porta nella sua capanna, le compra dei vestiti, recita persino un incontro galante. Sorvoliamo sul fatto che Franco è alle prime armi e che la regia è raffazzonata, che una fastidiosissima voce fuori campo con le parole del libro irrompe in scena, che il tempismo scenico manca di ogni misura, che il montaggio faccia frequente uso di elementari dissolvenze in nero, che i toni sono eccessivi fino allo sfinimento: quel che non ci piace del film è che non apre mai, che non affronta un discorso più ampio di giustizia (quella civile, ma non così tanto, dei cittadini e quella “naturale” e deviata di Ballard), peraltro compresso nei pochi ultimi minuti (gli unici che si salvano in tutta la pellicola), condannandosi a un tetro resoconto di orrende morbosità. E’ così legato al romanzo, al limite della sottomissione (riporta persino le parole in testo bianco su sfondo nero) da rifiutarsi di varcare nessuna porta che non sia consentita dal testo di partenza. Mi sarebbe piaciuta l’idea perversa, ad esempio, di un selvaggio addomesticato da una donna morta. Ma quando (attenzione spoiler) Ballard uccide un’altra donna, le taglia lo scalpo e corre in giro cercando di ammazzare a destra e a manca indossando i capelli biondi della suddetta donna, un pò cadono le braccia. E si spera solo che qualcuno lo faccia secco una volta per tutte.

Alexandros Avranas: Miss Violence (Grecia)

E’ evidente che i polli che hanno applaudito fino a consumarsi le mani Miss Violence non hanno mai visto Kynodontas. Avranas è infatti debitore (se non plagiatore) del cinema di Lanthimos, dal quale il regista greco scopiazza i contenuti (famiglia con padre-mostro-dittatore) e lo stile (piani fissi, simmetrici, personaggi tagliati fuori dall’inquadratura). In una famiglia borghese, la figlia si butta dalla finestra il giorno del suo compleanno, e ciò da il via a una fiera di orrori: maltrattamenti, umiliazioni, autolesionismo, schiavitù sessuale. Avranas, che sa il fatto suo sul piano tecnico, freddo ed estetizzante al limite del patinato, affronta tutte queste tematiche come se fossero un gioco da ragazzi, quasi provando piacere a mortificare i suoi attori, senza il minimo rispetto, senza la minima riflessione, con un cinismo da maniaco-voyeur più che da osservatore. Noi non siamo bacchettoni, ma Miss Violence prende delle derive di sadismo pruriginoso, di violenza gratuita e compiaciuta, di scene di stupro buttate lì, che vanno contro qualsiasi etica morale. E non ci si arrampichi sui vetri spiegandomi che il film è una “metafora della Grecia piegata dalla crisi”. Insomma Avranas vorrebbe fare il Lanthimos, il Seidl, l’Haneke senza avere nè le capacità espressive nè la lucidità dei grandi autori citati, e finisce così per essere una loro involontaria, triste, caricatura. Il risultato è un film furbetto (perchè elegante, ma per finta), meschino e orrendo.

S.U.