James Gray: The Immigrant

JAMES GRAY

The Immigrant

(USA 2013, 120 min., col., drammatico)
(visto in occasione della rassegna “Cannes e dintorni”)

Divento pericolosamente parziale quando parlo di James Gray. Per alcuni è uno dei più brillanti autori americani, per altri un mestierante che ha poco da dire; alcuni scrivono che realizza capolavori di espressività inarrivabile, altri affermano che è un convenzionale regista di melò. Quando dico che siamo – sono, in verità non conosco l’opinione del collega al riguardo – imparziali intendo dire che, almeno per chi scrive, Gray è, come minimo, il realizzatore di film genuinamente commoventi, forti di una forma espressiva al tempo stesso tragica ed elegante, sofisticata e al contempo naturale, soprattutto negli ultimi I Padroni Della Notte e nel meraviglioso Two Lovers. Un regista sì di melodrammi, ma di un genere di melodramma intelligente e convogliato nella modernità; se poi si aggiunge che anche in questo film Gray si avvale di due fidati amici, l’attore Joaquin Phoenix e il direttore delle luci Darius Khondji, il gioco è fatto.

Ewa (Marion Cotillard) è una immigrata polacca che parte alla volta degli Stati Uniti alla fine della prima guerra mondiale. La sorella viene fermata e trattenuta ad Ellis Island perchè malata; comincia così il calvario di Ewa, che finisce nelle grinfie di Bruno (Joaquin Phoenix) che la spinge, con la scusa di volerla aiutare a liberare la sorella, a prostituirsi. Bruno, allo stesso tempo, la ama, e la difende da chiunque: anche, egoisticamente, da chi potrebbe aiutarla più di lui. Da queste poche righe si capisce che i personaggi di Gray non sono mai veramente liberi, non godono del libero arbitrio; hanno sempre, giustamente come scrivono in molti (in questo caso sì, siamo d’accordo con il pensiero comune!), connotati Dostoevskijani. I personaggi sono determinati dalla nascita: il libero arbitrio non è concesso. Questo determinismo condanna così Bruno (personaggio oscuro ma “umano”) fin da subito ad amare Ewa senza esserne ricambiato, ed Ewa (personaggio angelico ma sempre “umano”) a subire un destino crudele e allo stesso tempo ad essere ambiguamente attratta – e dipendente – dal male di Bruno. Come negli altri suoi film, a sopravvivere infine è una dolorosa compassione.

Restando sempre al confine tra cinema d’intrattenimento e opera d’arte, James Gray, cesellando a dismisura i suoi film di sequenze memorabili e intense, di dolcezza e violenza che, specialmente nel cinema statunitense, raramente si sono viste convivere così bene, dà spesso l’impressione di voler cercare testardamente il capolavoro, l’opera complessa e profonda che lo consegni definitivamente ai posteri, a costo di sembrare auto-indulgente e pretenzioso. Qui, infatti, il talento e il potere espressivo emerso nei suoi ultimi film sembra subire se non una battuta d’arresto, una decelerazione, e non tanto per pigrizia o stanchezza, ma perchè più che in passato tende a lasciare troppo la scena ai suoi collaboratori. Infatti, pur mantenendo una regia appassionata e trascinante, spesso a catturare l’attenzione è più che altro la pregevole tavolozza ocra e giallo oro (vedi immagini) del suo direttore della fotografia, che dona una dei migliori effetti cromatici per ambientazione “antica”, e un alternanza di chiaroscuro come sempre superbo (per chi non conosce Gray: guardate i film sopra nominati e vi sfido a non esclamare “che fotografia!” in entrambi i casi); e la danza fluida della sua macchina da presa non può che venire eclissata dalla grandezza (vogliamo finalmente dirlo che è il miglior attore sulla piazza?) di Joaquin Phoenix, inutile dilungarsi a lodarlo: il suo monologo finale, colmo di una disperazione trattenuta a malapena come un vulcano, fa venire un groppo in gola.

E torniamo alla nostra compiaciuta soggettività. E’ tutto vero: che, a parte il ritratto dei personaggi, il film non dice nulla di pregnante; che il tema dell’avanspettacolo (quello dei disgraziati, di Bruno e del concorrente in amore, il mago Orlando), nell’epoca in cui veniva progressivamente sostituto dal cinema, sia trattato in maniera disinteressata per lasciar posto alle esplosioni emotive; e che le contraddizioni del sogno americano sono accennate e mai approfondite. Il tono generale da kolossal ad alto budget non aiuta. Ma non riesco proprio a non farmelo piacere Gray. Sarà lo sguardo di compassione per i suoi miserabili, il suo potere evocativo, l’importanza delle piccole cose, i particolari che spesso dicono più delle parole, ma proprio no, non riesco a dire che The Immigrant è un occasione sprecata.

Stefano Uboldi
  • http://www.blogger.com/profile/13267355458580221545 Mattia

    Tra l’altro il direttore della fotografia è lo stesso della pellicola Delicatessen di Jean-Pierre Jeunet, nella quale il colore ocra è sempre dominante.