Steven Soderbergh: Effetti Collaterali

STEVEN SODERBERGH

Effetti Collaterali

(Side Effects, USA 2013, 106 min., col., thriller)

Se The Informant era l’opera di Soderbergh che poneva in maniera esplicita la questione della crisi economica (nel 2009, al suo picco iniziale), e Contagion (2011) l’opera che esponeva metaforicamente la diffidenza tipica della società moderna, più che la biologia, Side Effects è l’opera che riassume e integra i concetti che il regista di Baton Rouge, maldestramente, aveva provato a esprimere prima degli ultimi due inciampi (Knockout e Magic Mike): effetti del disagio collettivo sull’individuo (specie quando non si “sente” direttamente coinvolto dalla crisi); il senso di alienazione; l’ansia dell’uomo che vorrebbe avere il controllo su tutte le cose; la superiorità della ragione sull’istinto.

Side Effects attinge ai temi della speculazione finanziaria di The Informant associandoli alla biologia, in questo caso al sintomo della depressione (causata in fondo dal disagio economico della protagonista) e all’industria farmaceutica che “specula” a sua volta sulla depressione, un circolo vizioso. Così, come gli altri film è costruito con linearità granitica, ma rispetto a quelli è un pò più sui generis, sembrando all’inizio un dramma psicologico, evolvendosi dopo un colpo di scena (sopraffino) in legal thriller per poi finire come…thriller e basta. In realtà il contenuto è molto meno complicato di quello che sembrerebbe all’inizio: di chi è la responsabilità quando un malato mentale compie un omicidio? Come è possibile prevedere quello che il malato compirà, contro gli altri o contro sè stesso? Qual’è il ruolo dello psichiatra e il peso del farmaco assunto? Domande intriganti che vengono lasciate un pò nell’aria, mentre il film prende una piega molto più facilmente uomo-che-lotta-contro-il-complotto-ordito-alle-sue-spalle. La potenziale critica alle multinazionali farmaceutiche, e più in generale l’analisi di una società che vede negli antidepressivi la panacea di tutti i mali, è presto lasciata da parte per dare spazio a un thriller di ottima fattura. Più che sul contenuto in questo caso a noi interessa il contenitore, una gioiellino di cristallo pulito traslucido che è forse la creazione più tecnicamente perfetta sul piano formale e narrativo del prolifico autore.

Inutile ribadire ciò che si può leggere su qualsiasi recensione cinematografica che sia su carta o su web, ovvero il distacco emotivo che è marchio di fabbrica del regista: già sentito, già visto. Certo Soderbergh è un autore glaciale, non è interessato all’intrigo quanto alla realizzazione di atmosfere/suggestioni, alla geometria degli spazi (il film comincia con una panoramica su un palazzo con finestre tutte uguali, finisce con le sbarre tutte uguali di una prigione), l’attenzione ai dettagli, l’uso superbo del digitale (fuorifuoco creativo, efficacia di stacchi e montaggio, angoli e punti di vista inusuali), la decostruzione narrativa (nella seconda parte, quando si ribalta la situazione del manipolato-manipolatore) applicabile a ogni suo film, anche gli insospettabili Ocean’s 11-12-13 e i due Che, il ruolo meccanico dei suoi attori americani (sempre diversi: ormai hanno tutti lavorato per Soderbergh; altro aspetto: nessuno è mai “al di sopra” degli altri), svuotati della loro personalità ed “impiegati” come automi (Rooney Mara, C.Z. Jones sembrano letteralmente mosse come burattini dal regista).

A mio parere c’è dell’altro nella sua ultima prova, qualcosa che la distingue dal resto della sua filmografia, ed è il personaggio di Jude Law. Nel protagonista di Side Effects credo che si possa cogliere l’intero punto di  vista di Soderbergh. Lo psichiatra è l'”uomo ideale” del cinema di Soderbergh: viene incastrato da macchinazioni (inizialmente) fuori dalla sua comprensione, ma riesce con pazienza e raziocinio ad uscirne; giunge alla risoluzione con pazienza e ingegno, non si lascia trascinare dagli impulsi: tiene i nervi a posto (i nervi che saltano sono i nostri: Hitchcock docet); è spiritoso ma mai eccessivo; gentile ma risoluto; è un uomo semplice ma non ingenuo; compie errori ma gli pone rimedio. E’ un “eroe” dell’equilibrio, che sopravvive a qualsiasi ribaltamento dei fatti (altro marchio di fabbrica del regista, si veda Traffic). Risolve ogni torto subito, e chiude definitivamente (?) la storia. Come il regista, non perde mai la calma, è abbastanza distaccato da non venire travolto dal vortice che vorrebbe risucchiarlo. Il mondo, le sue contraddizioni, i sentimenti, l’economia, la politica nel suo cinema non sono mai protagoniste: sono un eco che ci accompagna in sottofondo, anche dopo la visione.

Stefano Uboldi