Bertrand Bonello: L’Apollonide – Souvenirs De La Maison Close

BERTRAND BONELLO

L’Apollonide – Souvenirs De La Maison Close

(Francia, 2011, 126 min., col., drammatico)
L’Apollonide è un invito: ad affrontare, senza presunzione alcuna, un’opera fuori dagli schemi, libera dalle strutture vincolanti del cinema classico. Ambientato in un bordello parigino tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, il film riesce allo stesso tempo a rappresentare fedelmente, in maniera più o meno cruda, la vita e le vicende delle sue (e qui il femminile ci sta tutto) protagoniste, e allo stesso tempo a creare una dimensione parallela, sospesa, onirica che avvolge tutto come un velo invisibile. E’ difficile spiegare come possano coesistere in modo così naturale due realtà così distanti, la materia e  il sogno (non il sogno in sè, ma l’astrazione, il simbolo) ma Bertrando Bonello, autore semisconosciuto in Italia, compie il miracolo con risultati che non si vedevano dagli ultimi capolavori di Lynch.
Bonello condivide l’idea di quel cinema contemplativo caro a Dumont, per cui la visione deve cedere il passo all’esperienza sensoriale, affermando il primato di ciò che è ripreso dalla cinepresa su tutti gli altri artifici tipici della messa in scena. Attenuando però la sottrazione tanto cara allo stile del connazionale, Bonello preferisce scardinare continuamente il nostro punto di vista così da farci sentire piacevolmente impreparati ad ogni singola sequenza; coraggiosamente, non descrive, evoca. Così non si preoccupa troppo di ricostruire ogni singolo aspetto dell’epoca (come fece, nei suoi “volontari” errori storici, il Martone di Noi Credevamo quando inquadrava passatoie/scale di ferro in epoca risorgimentale) nè di sottolineare ogni singolo particolare che non sia essenziale ai ritratto che dipinge (in tal senso, estrapoliamo le personalità delle donne non per mezzo di azioni o dialoghi specifici, ma attraverso il loro modo di approcciarsi alla quotidianità, all’ordinario). Così dimentichiamo che ci troviamo in una precisa epoca storica, in un preciso posto nel mondo, e ci leghiamo indistintamente a loro. Non a caso, tra i costumi d’epoca troviamo anche musiche contemporanee (come nella sigla d’apertura o nella sequenza in fondo al post). Cinema fatto di sensazioni, percepibile sottopelle, discreto come il riflesso della luce su un vetro, flusso continuo di immagini strepitosamente legate tra loro, ma anche costruito su pause e dissolvenze che scandiscono l’incedere di una pellicola chiusa, che si muove di stanza in stanza, di maschera in maschera. Senza psicologismi ma in maniera semplice e diretta, pur dichiarandosi riluttante ad ogni tipo di semplificazione, Bonello raffigura, quasi mai attraverso il sesso ma piuttosto concentrandosi sulle circostanze e sugli ambienti, i riti e le abitudini di quelle donne che, per necessità o per (apparente) volontà di emancipazione, furono donne di piacere.

La storia e la morale vogliono la prostituta come oggetto di umiliazione, etichettabile come donna mentalmente e fisicamente inferiore (nel film è citato un saggio antropologico in cui è pseudoscientificamente dimostrato che la prostituta ha una scatola cranica, e quindi un cervello, di minore dimensione rispetto alle altre donne). Il film riesce a cogliere e liberare questa figura, attraverso una catarsi annunciata. Le donne di questo film cercano libertà (in una scena la protettrice dice ad una di loro: “Cerchi la libertà? E’ solo fuori di qui”) ma sono private della loro stessa identità, intrappolate all’interno dei lussuosi appartamenti della casa di piacere. Gli elementi che esprimono questa condizione sono due: in primo luogo il fatto che le donne, nonostante i numerosi riferimenti al corpo e alle frequenti scene di nudo, si comportano come ectoplasmi, delle entità fisiche eppure evanescenti, incatenate a camere decadenti, alle fantasie dei loro clienti, a nomi avvilenti; in secondo luogo la scelta di Bonello nel girare esclusivamente in interni, illuminati da luci soffuse, circondati da ombre, e di caricare gli oggetti di significati-chiave; ciò che proviene dall’esterno è ugualmente fittizio, poichè apparente è anche l’unica fonte esterna di salvezza, ovvero il riscatto di un possibile amante-marito. Che cosa può salvarle, allora, se non la solidarietà reciproca, la consapevolezza di trovarsi tutte nella stessa condizione? Due sono le scene che riscattano la figura della prostituta, e sono scene di grande umanità: quella in cui una di loro legge le carte, e tutte sono in attesa, come non si trattasse di una di loro, ma di tutte loro unite nello stesso destino; e la scena che non approfondirò, in cui le “colleghe” aiutano la meno fortunata, sfregiata da un maniaco, a compiere la sua vendetta. Ecco dunque finalmente restituita la dignità a queste donne. Attraverso il cinema, non attraverso un marito.

Il film non è stato distribuito in Italia, e probabilmente non lo vedremo mai in sala.

(siccome le immagini valgono più di mille parole, per spiegare quel concetto di “non-temporalità” e “non-spazialità” allego questa scena del film, in cui le protagoniste ballano sulle note di Nights In White Satin, dopo la morte di una di loro. L’utilizzo di musiche contemporanee in contesti extra-temporali non è una novità, basti pensare ad alcune scene di Maria Antonietta di Sofia Coppola. Ma se la Coppola utilizzava questo espediente in senso sprezzante/provocatorio, Bonello ne fa un uso poetico, struggente)
Stefano Uboldi
  • http://www.blogger.com/profile/03534531587731563437 Rumplestils Kin

    Grandissimo film! Un vero capolavoro. Lo vidi e recensii mesi fa, e sono contento di vedere che anche ad altri è strapiaciuto.

  • http://www.blogger.com/profile/11347254217489974262 Stefano

    sì, lo è davvero. di film arretrati ne ho troppi, questo però aveva la precedenza

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