Martin Scorsese: Hugo Cabret
MARTIN SCORSESE
Hugo Cabret
(USA 2011, 129 min., col., drammatico)
Hugo Cabret è un film tratto dal romanzo-graphic novel “La straordinaria invenzione di Hugo Cabret” di Brian Selznick. Hugo Cabret è un film per ragazzi. Hugo Cabret è un film didattico. Hugo Cabret è pura nostalgia. Hugo Cabret: l’ospizio del cinema.
Hugo Cabret è un orfano che vive nella stazione di Parigi negli anni ’30. Passa il tempo aggiustando gli orologi e si è imposto come missione la riparazione dell’automa (!) ereditato dal padre, nascosto nel suo nascondiglio. “Prende in prestito” gli oggetti dal chiosco del giocattolaio, un vecchio e misterioso burbero, ed è costantemente braccato dalla guardia della stazione. L’incontro con una ragazzina darà inizio ad una avventura che lo porterà a conoscere le origini del…cinema.
Centro dell’opera è il “cinema del sogno” di George Mèlies, cineasta bizzarro e sfuggente, che incarna, come un illusionista, la magia della cinepresa. Ed è bellissimo riscoprire un mondo di genuina, spettacolare fantasia: la scena in cui sono mostrati i primi set cinematografici è autentica e commovente, si può percepire lo sfogo di un regista, Martin Scorsese, che ha dedicato la sua vita non solo a realizzare, ma anche a recuperare pellicole. L’aspetto più entusiasmante e interessante dell’opera è certamente il suo “scenario”. Il tentativo è di riproporre la meraviglia e lo stupore che avrebbero provato gli spettatori alle prime proiezioni di Meliès. La sensazione che provo di primo acchito è proprio di incantevole bellezza; e nonostante abbia visto il film in modalità “standard” (ormai si dice così?), è evidente la funzionalità strutturale del 3D come risorsa indispensabile per godere appieno delle potenzialità visive qui espresse. La ricchezza delle inquadrature toglie il fiato: ogni scena è frutto di una ricostruzione al limite del maniacale; la scenografia e i costumi sono di uno sfarzo difficilmente replicabile.
Eppure, nella sostanza, in questo film non c’è una sola cosa che sia davvero accattivante.
Tutto è illustrato come se ci trovassimo ad una lezione di storia, ogni cosa è “spiegata” per filo e per segno, niente viene lasciato all’immaginazione (la nostra) e al mistero. La sceneggiatura in questione è pertanto qualcosa di orrendo. A parte le mille frasi fatte, a parte i piatti e insipidi dialoghi che ci dobbiamo sorbire per tutta la durata del film, i protagonisti non fanno altro che ripetersi: “questa è una grande avventura!” (per convincere chi? Me o loro?) e a sottolineare la magia del cinema: “riconoscerei il suono di un proiettore da un chilometro!”. Voglio dire, il cinema è una magia, e lo capisco anche da solo (vedendo, appunto), non c’è bisogno che me lo dici ogni due minuti in cento modi diversi. Già dalla trama è possibile dedurre quando l’intera vicenda sia campata per aria. Abbiamo questo protagonista, tenero ragazzo dallo sguardo strappalacrime, che sembra uscito direttamente dal Dickens più sfigato; uno svolgimento quantomeno assurdo, in cui ogni personaggio sembra già assemblato in partenza, costretto ad imbattersi col protagonista in episodi spudoratamente prefabbricati. Il tutto è condito da simpatiche scenette che vedono protagonista la guardia, il suo cane e la fiorista di cui è innamorato; sembra che il regista si sia sforzato di creare un micromondo nella stazione parigina riuscendo però solo a fare un quaderno di macchiette. Questi “siparietti”, insieme alla immancabile fisarmonica francese, fanno sembrare che Scorsese voglia imitare Jeunet: fa un po’ strano il regista di Quei Bravi Ragazzi che vuole rifare Il Favoloso Mondo Di Amelie.
E’ d’obbligo un paragone con The Artist, se aggiungiamo che ne è anche il principale concorrente agli Academy. Entrambi sono contraddistinti da una nostalgia che è parte costitutiva (e un po’ fine a sé stessa, mi permetto di aggiungere) della loro stessa natura; ma se The Artist, con la sua splendida anomalia di film muto, aveva una sottigliezza ed un intelligenza in grado di incantare con il suo scintillante glamour, oltre che di farci immergere per davvero nello spettacolo, Hugo Cabret invece “spinge” lo spettatore a godere quasi come se fosse obbligato a farlo, con il didascalismo che può essere solo di un libro di testo.
In sintesi, Hugo Cabret è un film che ha la missione più nobile che un film possa desiderare: trasmettere a qualsiasi pubblico l’amore per il cinema. Il valore del suo messaggio è oro colato, non lo metto in discussione, e nemmeno le intenzioni del regista. Ma basta davvero cimentarsi in qualcosa di differente per ringiovanire? Anche se una scelta nuova e inaspettata può comunque sembrare ammirevole, Scorsese qui fa fiasco. L’impressione è quella del nonno che regredisce all’infanzia, al gioco, perdendo però di forza, energia. Dov’è la narrazione serrata, la delineazione dei personaggi, la passione a cui ci ha abituato il regista? Tutto fin troppo molle, il film si lascia cullare andando in direzioni sempre più prevedibili.
P.S.: Eccolo, un bel tributo al cinema di George Melies, un videoclip degli Smashing Pumpkins che ha segnato la mia infanzia!
Stefano Uboldi
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