Noah Baumbach: Lo Stravagante Mondo Di Greenberg

NOAH BAUMBACH

Lo Stravagante Mondo Di Greenberg

(Greenberg, Usa 2010, 107 min., col., drammatico)

L’uomo (o gli uomini) che hanno l’incarico di italianizzare i titoli dei film stranieri dovrebbero licenziarsi, riflettere e redimersi. Perchè non lasciare Greenberg, titolo originale, che spiega letteralmente tutto di questa pellicola? Devono essersi limitati a leggere la trama, o peggio aver sbirciato di sfuggita la locandina. Perchè aggiungere quell’inutile e fuorviante stravagante mondo? Ah sì, c’è Ben Stiller, quindi dev’essere una commedia. Lo spettatore in cerca di facili risate, seduto a mangiare pop corn mentre si chiede perchè un film con Ben Stiller sia dato proprio lì, in un cinema seminascosto e non in una sala 3D, non tarderà ad uscire all’intervallo deluso, sconcertato e irritato per aver sprecato i propri soldi con quel biglietto.

Ci troviamo a recensire una film complesso e problematico. E l’insicurezza con cui la stampa di settore si trova, criticandolo ora come opera mediocre ora come capolavoro “inesploso”, alimenta la sfida di trattare una pellicola passata pressochè inosservata al grande pubblico.

Los Angeles. Florence, assistente-tata in una famiglia benestante (i Greenberg) sulla ventina, una vita precaria e incompleta; Roger, fratello del padre di famiglia, sulla quarantina disadattato ex musicista (ex-tutto in realtà) incaricato di curare la casa mentre è in ripresa da un esaurimento nervoso. Entrambi in cerca di qualcosa che ovviamente, non arriva mai. Si trovano e si allontanano, costruiscono barriere che infrangono per poi riavvicinarsi. La vicenda, pur percorrendo le linee-guida tipiche di una commedia, fin da subito è destinata a risolversi in sconfortante indeterminatezza, nella più gelida staticità; poco o nulla cambia nelle vite di due personaggi che agiscono in un contesto, quello della suburbia americana, non meno spettrale della loro condizione.

In particolare nulla sembra cambiare per Roger, fantasma estraniato dal mondo che lo circonda, in piena crisi esistenziale. Il protagonista è rappresentato in modo approfondito e impeccabile: lo stravagante mondo di cui si parla non è semplicemente una realtà alternativa in cui egli si rifugia (questo si è già visto altrove), ma un intricato mosaico di comportamenti (tic, sbalzi d’umore) riassumibile come barriera imposta contro la società. Così, le scelte sbagliate trovano giustificazione. Le lettere di protesta, scritte compulsivamente e indirizzate un pò ovunque, rendono la sua completa inadeguatezza di fronte a un mondo che rifiuta; il partecipare a feste di quindicenni ne rivela la crisi d’identità; il volere sapere cosa gli altri pensano di lui rivela un complesso paranoico-ossessivo; e soprattutto Florence, unico sostegno e ipotetico spiraglio di uscita, che viene allontanata puntualmente con la giustificazione di una differenza d’età incolmabile (lei gli ricorda la sua giovinezza mai vissuta?). I conoscenti “adattati” (non manca uno squisito assaggio di mediocrità borghese) aggravano la situazione: piuttosto che avvicinarsi al loro status Roger preferirebbe che gli altri si abbassassero al suo (“sto cercando di non far niente”); così come quando spinge il migliore amico a lasciare la moglie per formare un improbabile reunion.

La location, Los Angeles, non è scelta a caso: è il luogo di finzione per eccellenza. Tutto ruota attorno allo stesso chilometro quadrato di villette tutte uguali, avanti e indietro in auto negli stessi locali, case, party.

In Greenberg c’è un uso sistematico del simbolismo. La festa surreale in cui si trova Florence, in mezzo a un bosco artificiale; un pupazzo tenuto in piedi solo dal vento; un misterioso animale affogato in piscina. Si evince una affininità dell’autore a uno spirito europeo, più vicino al cinema d’autore che alle velleità indie stile sundance (finto indipendente).

Ben Stiller è qui alle prese nel suo ruolo più arduo, solo nei Tenenbaum di Wes Anderson l’avevamo visto fuori dalla consueta maschera di ebreo sfigato (Noah Baumbach stesso ha scritto con Anderson) e anche in questo caso sia la scrittura che l’interpretazione sono il nocciolo del film. Lo stesso vale per l’esordiente Greta Gerwigh, non proprio un’ icona di bellezza e per questo ancora più genuina e naturale.

Greenbergh è l’ultimo capitolo di una ideale trilogia di Baumbach, che sarebbe da rivedere e recensire, magari a ritroso. A conti fatti si tratta di un film notevole, su cui spero si tornerà a parlare, che ai Cineuforici è piaciuto incondizionatamente.

Stefano Uboldi