Martin Scorsese: The Wolf of Wall Street

MARTIN SCORSESE

The Wolf of Wall Street

(USA 2013, 177min., col., commedia)
TRAMA. L’impressionante ascesa e caduta di Jordan Belfort: broker di New York che tra gli anni 80 e Novanta conquista una fortuna incredibile truffando milioni di investitori. Giovane “nuovo arrivato” a Wall Street, Belfort si trasforma ben presto in un corrotto manipolatore dei mercati e della Borsa, conquistando rapidamente una ricchezza enorme che utilizza per togliersi ogni sfizio che la vita possa offrire: donne, droghe di vario tipo, automobili, yacht, una moglie supermodella… Una vita leggendaria fatta di aspirazioni e acquisti senza limiti fino a quando la sua società, la Stratton Oakmont, attira l’attenzione della SEC e dell’FBI… (cinematografo.it)
L’ultimo film di Scorsese si riallaccia direttamente ad altri suoi film, e si potrebbe dire anzi che rifà, con tocchi e umori diversi, le sue opere maestre Toro Scatenato, Quei Bravi Ragazzi e Casinò, e una quarta opera minore ma non meno significativa, The Aviator. Il soggetto è lo stesso: la parabola di un uomo che vuole avere tutto e cade rovinosamente. Ma Toro Scatenato è del 1980, Casinò del 1995, e The Aviator del 2004; e in questo decennio The Wolf of Wall Street rappresenta più che un aggiornamento, un cambiamento di rotta nello stile di rappresentazione del regista; laddove i primi tre erano aggressivi, insolenti, pervasi di una violenza improvvisa, esplosa in luoghi oscuri, malavitosi, e il quarto forte al contrario di un atmosfera onirica, nostalgica e claustrofobica, The Wolf of Wall Street assume invece i connotati della commedia sociale. Commedia farcita di aspetti grotteschi, e sostenuta da una successione di sequenze una più eccessiva dell’altra. In 3 ore di Bunga-Bunga, Scorsese piazza il suo film più orgasmico e divertente, girato che sembra sotto l’effetto di stupefacenti (il paragone fatto con Paura e delirio a Las Vegas non è inverosimile, si veda la scena Popeye-spinaci-cocaina); dunque non ci risparmia niente: Orge su aeroplani, sperimentazioni massicce di stimolanti e calmanti, lanci di nani, feste infinite, auto sportive devastate, viaggi suicidi nel Mediterraneo in tempesta.

Nella sua interpretazione più divertente di sempre, Di Caprio gigioneggia senza remore, saltellando su vari registri (comico/isterico/drammatico), in un ruolo, quello di Jordan Belfort, che richiede una performance costantemente sopra le righe. Il lato più affascinante di Belfort è che esiste solo agli occhi del mondo e che vive come re del suo mondo (com’era Howard Hughes in The Aviator), smettendo di esistere quando è da solo. Mi spiego: quando Jordan ha l’occasione di ritirarsi evitando così i guai legali che lo perseguitano, cambia spettacolarmente rotta in un monologo di fronte ai suoi dipendenti (“noi siamo l’America”). In questa scena è chiaro che la sua compagnia di brokers è il suo palcoscenico, l’unico luogo in cui può non solo essere sè stesso, ma ispirare altri aspiranti squali con la sua fame (denaro/droga/sesso) diffondendo il Verbo (guadagna/spendi/divertititi) declinato in forme sempre più chiaramente (auto)distruttive. Questo momento chiave del film, in mezzo a tante ripetizioni, è quello in cui Jordan realizza che, se egli smettesse di essere la Stratton Oakmont, smetterebbe di essere. Jordan trasforma l’ufficio nel suo personale luogo magico in cui tutto può accadere, in cui i soldi possono davvero trasformare la realtà in un carnevale senza fine, in cui anche il sesso smette di essere privato, in un godimento potenzialmente senza termine, godimento aumentato sadicamente dalla consapevolezza di aver guadagnato sulle speranze infrante di migliaia di investitori (affamati di soldi, come lui; il pesce più grosso mangia il pesce più piccolo, e così via).

A un aumento della grandiosità del cinema di Scorsese, non riscontriamo però in esso un arricchimento proporzionale di senso. Ciò risulta evidente dall’esiguità della trama, che trascina il film in una catena di aneddoti (Jordan che interroga il maggiordomo gay che gli avrebbe rubato i soldi; Jordan che usa la famiglia per trasferire soldi in Svizzera; Jordan che prova a corrompere l’FBI ecc.); il che va a costituire una struttura macchinosa che non rende giustizia ad una sceneggiatura oltraggiosamente straordinaria. Il film rimane concentrato sui vizi dell’ingordigia e della vanità (il tutto, fortunatamente, senza predicozzi), e rimane sul fronte umano senza mai estendere il discorso al lato puramente economico/finanziario; mostra i sintomi, indugia sugli eccessi, senza preoccuparsi troppo di indagarne i meccanismi; il sistema non è fondamentalmente malvagio, ma è il modo distorto che se ne fa che produce mostri. Scorsese non vuole parlare di capitalismo, non sa, non vuole fare davvero i conti con esso, e si limita a descriverne gli eccessi (umani; e solo dopo sistemici). Ad esempio, è interessante la scena della penna (che non a caso chiude il film), ma viene a mancare, nello svilupparsi della pellicola, una riflessione sul rapporto tra la vendita, il bisogno e la sua creazione (la creazione del bisogno come metodo vincente di vendita). Preferiamo considerare comunque queste mancanze non come delle omissioni ma, più correttamente, nella luce di una chiara presa di posizione dell’autore: il punto di vista del pubblico e quello dell’artista non è mai conciliabile e va preso atto di questo. Per questo, non diremo cosa ci sarebbe piaciuto vedere (tanto, a fronte del poco messo in scena, reiterato a dismisura per 3 ore) in The Wolf of Wall Street e ci atteniamo solo al risultato, peraltro ottimo, del regista statunitense.

Perchè The Wolf of Wall Street è un trip che vale la pena (177 minuti di ripetitività godereccia) concedersi, se non altro per inebriarsi dell’opulenza cinematografica di Scorsese (c’è bisogno di dirlo? dolly, carrelli, flash-forward, ralenti, fermoimmagine, musica diegetica/extradiegetica ecc.); anche se i suoi film, sempre dignitosi, sembrano oggi tenuti in piedi più dalla sua innegabile classe che dalle idee.
Stefano
  • http://www.blogger.com/profile/09993226958393520486 Marco Goi

    e invece scorsese parla eccome di capitalismo.
    è tutto qui. davanti ai nostri occhi. non c’è altro. è questo

  • http://www.blogger.com/profile/11347254217489974262 Stefano

    Di questo film tra dieci anni rimarrà l’interpretazione di Di Caprio, la megalomania cinematografico-edonistica di Scorsese, l’oltraggio della sceneggiatura di Terence Winter: tutte cose buone e giuste e memorabili. Semplicemente non credo che rimarrà alcuno stimolo di riflessione sul mondo della finanza (meglio espresso in Wall Street di Stone) e sui suoi meccanismi (meglio espressi in Margin Call), che non puoi ridurre semplicisticamente a “fugazi” e “polverina di fata”.

  • http://ilbibliofilo.wordpress.com/ marco46

    concordo pienamente
    la feroce anarchia del capitalismo era descritta meglio in MARGIN CALL
    ma qui c’è Dicaprio
    a cui non dovrebbe sfuggire l’Oscar (lo meritava 10 anni fa per THE AVIATOR) tanto è istrionico e inesauribile nel suo ruolo di S.O.B

  • http://www.blogger.com/profile/13526718142537678826 Kris Kelvin

    Anch’io sono d’accordo al 100% con questa splendida analisi. Non è un film sulla finanza malata, ma sull’ingordigia (non solo di soldi) dell’essere umano. Volendo andare ancora più indietro, per trovare un film sulle storture del capitalismo direi che un bellissimo esempio è ‘Americani’ di James Foley. Ma questo è più che altro un film su un personaggio, e Di Caprio è ovviamente grandioso. Però indubbiamente il ‘vero’ Scorsese non abità più qui.

  • http://www.blogger.com/profile/13267355458580221545 Mattia

    Il film di Scorsese non mi ha convinto pienamente. Simpatico certo, ma niente più. L’ascesa e il declino di un personaggio (che sia reale o fittizio) non mi interessa più ed è sempre associata al faccione di Di Caprio. Insomma, basta. I film ruotano intorno a DiCaprio in maniera nauseante, rendendo prevedibile la narrazione. L’interpretazione dell’attore nella pellicola di Scorsese risulta almeno degna di nota? Neanche per sogno. I sogghigni, le smorfie e i suoi sguardi maliziosi non cambiano da un film all’altro. Oscar? Se vengono considerati i minuti alla “Paura e delirio a Las Vegas”, allora sì. Ma sennò, qual è la differenza fra Gatsby e Jordan Belfort? Uno ha il costume bianco e l’altro blu.

  • http://www.blogger.com/profile/01505840319808672920 Lisa Costa

    Concordo con il Cannibale e con il suo entusiasmo, è stato un giro in giostra per nulla banale e/o privo di significato con un grandissimo Leo e un grandissimo Scorsese!

  • http://www.blogger.com/profile/11347254217489974262 Stefano

    Anche a me il ruolo di Howard Hughes aveva colpito moltissimo.

  • http://www.blogger.com/profile/11347254217489974262 Stefano

    No dai, le interpretazioni sono agli antipodi. In Gatsby Di Caprio è adulto, posato, impeccabile, qui è un ragazzino arrapato e isterico. Che i film di Scorsese ruotino attorno a lui si capisce: perchè è il migliore. Comunque ho preferito il suo ruolo di Howard Hughes, sicuramente il più originale della sua carriera.

  • http://www.blogger.com/profile/11347254217489974262 Stefano

    Si, il significato c’è, ma l’ho già visto altrove!
    E’ un bel film, è vero, ma è davvero il caso di metterci ad adorare Scorsese? Per un film che vale la metà di quelli che faceva trent’anni fa? Io nutro solo qualche dubbio, tutto qui.

  • http://www.blogger.com/profile/11347254217489974262 Stefano

    Il “vero” Scorsese secondo me c’è eccome. Come dico all’inizio, si riallaccia benissimo alle sue opere maestre. E’ vero, come leggo scritto in molte analisi (molto più argomentate e approfondite delle mie righe) che Belfort è la metamorfosi dei personaggi interpretati da Joe Pesci e Robert De Niro. Se quelli avevano un minimo di volontà di redenzione, in Belfort manca, e lo stile si adatta di conseguenza (diventa allucinato, rifiuta la realtà, la sopporta solo con l’ipertensione, l’eccesso: bando all’introspezione, libero sfogo estroverso di personalità). Ma quello che diceva Scorsese in quei film…e come lo diceva…indimenticabile! E a un decimo del budget di questo ultimo (per inciso, 100 milioni $).

    Grande Sauro che hai citato Foley, splendido film.

  • http://www.blogger.com/profile/13267355458580221545 Mattia

    Si ma è il personaggio che è diverso, non l’interpretazione. Almeno, secondo me…

  • http://www.blogger.com/profile/14934185582461522168 A.V.

    Concordo inesorabilmente con quello che dici nell’ultimo paragrafo.
    Per il resto sembra un The Bling Ring ambientato a fine anni ’80. E a mio parere non parla di capitalismo bensì della vita di un semplice truffatore. Certo, che sfrutta a suo vantaggio alcuni meccanismi del capitalismo ma che si deve comunque accontentare solo delle briciole. Vale molto di più il monologo di McConaughey che tutto il resto del film.
    Allora il capitalismo viene inquadrato meglio in “Margin Call” o nel dittico “Wall Street”, dove almeno viene detta la verità: al mondo comanda una ristretta cerchia di persone. Le altre sono solo comparse. Come Jordan Belfort.

  • http://www.blogger.com/profile/11347254217489974262 Stefano

    Hai ragione. Infatti Belfort, non giocando secondo le regole di Wall Street (“lupo” di Wall Street, appunto), è un outsider. Come outsiders erano LaMotta, Rothstein, Hughes; ci sono i soldi (per un pò), ma il vero potere non è mai raggiunto; anzi: i personaggi di Scorsese rimangono sempre abbagliati da un miraggio di potere, ma ne sono sempre esclusi, alla fine.
    Poche storie: Scorsese è un grande a rappresentare questi personaggi, ma di capitalismo non sa (e non vuole, come suo diritto, fa benissimo) parlare.

  • Pingback: Jean-Marc Vallée: Dallas Buyers Club | I Cineuforici()

  • Pingback: LA NOSTRA CINETECA | I Cineuforici()

  • Pingback: Sight & Sound: Top 20 2014 | I Cineuforici()