Mostra del Cinema di Venezia: Giorno 6. Pallaoro, Coppola, Dolan, Knight

Mentre il concorso ufficiale rivela le sue carenze, è, come l’anno scorso (e immagino prima di allora) la categoria Orizzonti quella che regala le emozioni migliori, quella che ti fa sentire per davvero a un festival del cinema. Si è delineato ormai anche quest’anno un filo conduttore: la famiglia e le sue variazioni: Joe, Philomena, Police Officer’s Wife, Miss Violence e Tom A La Ferme e soprattutto Medeas ruotano tutti, a loro modo, attorno allo questo tema, sempre sotto l’ottica della crisi e del “dissolvimento”.

Andrea Pallaoro: Medeas (Usa)

Per la serie talenti italiani fuggiti all’estero: Andrea Pallaoro, classe 1982.
Il film d’esordio del regista italiano emigrato negli Stati Uniti è difficile, delicato, originale e complesso; tutte caratteristiche che il cinema del nostro paese ha dimenticato.
Il giovane cineasta in questo film fa rivivere la tragedia greca trasponendola nella vita di una famiglia nella prateria americana, in preda alla siccità, in un epoca imprecisata. Medeas è uno dei pochi film della mostra ad esibire una vera intenzione espressiva; quasi non parlato, il film è un manuale di inquadrature: taglio, disposizione degli attori, geometria nella loro costruzione. Gli attori non parlano praticamente mai: è il cinema, quello con la C maiuscola a parlare per loro. I riferimenti sembrerebbero essere Bresson e il più recente Reygadas (mi ha ricordato, per ambientazione, La Luz Silenciosa). Si tratta come si può intuire di un cinema alto, contemplativo, senza trucchetti e colpi di scena, di fulgida purezza visiva; difficilmente sarà sdoganato al grande pubblico.

Gia Coppola: Palo Alto (Usa)

E’ stato già dimostrato che il talento per la regia è trasmissibile per via genetica in famiglia Coppola, e il film della nipote di nonno Francis e zia Sofia è la prova che elimina ogni dubbio in proposito. Gia Coppola firma una pellicola discreta, non certo indimenticabile, anzi un film che ti sembra di aver già visto altre cento volte, eppure dotata di un certa classe e stile. Il film è tratto da un libro di James Franco, che produce e interpreta (ormai l’abbiamo capito, vedendolo aggirarsi tra la folla in tuta sportiva e berretto, che è un tuttofare). E’ un film di teenagers, di feste, di droghe, di problemi d’amore: un ambiente chiuso in una bolla, popolato dagli abitanti annoiati della provincia californiana che il mondo esterno non sanno e neppure vogliono sapere cosa sia. Un film che parla di adolescenti in stato semi-catatonico, che nella sua analisi non va molto oltre e che non ha neppure voglia di scavare più a fondo di qualche sintomo da rabbia giovanile senza causa e tipico innamoramento della compagna di classe. Ciò nonostante, il film ci è piaciuto, è un opera prima, lei ci sta simpatica, ha un nome carino, e di strada ne ha ancora da fare: speriamo che non si areni girando sempre lo stesso film come la zia.

Xavier Dolan: Tom à la Ferme (Canada)

Possono dire quello che vogliono i critici di tutte le testate giornalistiche del mondo, idolatrando questo talento canadese di 24 anni, regista più giovane ad aver mai partecipato alla Mostra. Io stesso mi aspettavo che Dolan con il suo film “salvasse”, con la sua freschezza, il festival dal pantano in cui si trova. Il risultato però è che Dolan, con in mente l’idea prefabbricata di realizzare un thriller sull’omofobia, ha invece realizzato il suo film più caricato e agitato, in alcuni punti pretestuoso, che perde per questo molta della sua credibilità. Tom A La Ferme ha sempre come protagonista Dolan, ha sempre come tematica l’omosessualità, e la macchina da presa è come al solito narcisisticamente puntata sulla faccia e sulle smorfie del regista che fa impazzire gli hipsters (e quindi non me). In sè, la pellicola è pure molto valida: Tom è un ragazzo di città che si reca nel Quebec rurale per il matrimonio del fidanzato: è costretto, dal fratello del defunto Francis, un pò bifolco e un tantino psicopatico, non solo a omettere la relazione ma a mentire per la madre facendole credere che in vita avesse una fidanzata. Il film da drammatico-esistenziale prende una piega thriller-psicologica quando Tom comincia a sentirsi misteriosamente “trattenuto” nella fattoria. Ma cosa lo trattiene? Lui è un pubblicitario. Innanzitutto lo attraggono la crudezza della campagna, la fisicità, il sangue, il lavoro: la sua è una sete di realtà. In seguito è proprio Francis, il suo torturatore, ad attrarlo, poichè gli ricorda il fidanzato, morto in un incidente stradale (per causa sua?). Più i maltrattamenti aumentano, più masochisticamente Tom ne è attratto; vuole soffrire per punirsi. La sinossi è molto interessante, ma il risultato non quadra: il film è pieno di buchi e situazioni e comportamenti irreali, forzati al limite del ridicolo. In una scena, una ragazza che “interpreta” l’ex ragazza del defunto è terrorizzata e minacciata da Francis, nella scena successiva ci vuole andare a letto. Ancora, i sintomi della pazzia di Tom sono troppo improvvisi e sembra quasi che Dolan abbia voluto accelerare il meccanismo che intossica la psiche del suo protagonista solo per rimarcare dei punti tematici che prima erano rimasti vaghi e che ora sembrano anche troppo rimarcati.
Sappiamo, come per già detto per Gia, che avrà tutto il tempo di rifarsi.

Steven Knight: Locke (Regno Unito)

Molto meno pretenzioso e molto ben realizzato è invece il film presentato dallo sceneggiatore Steven Knight, qui anche nelle vesti di regista. Il film si svolge interamente all’interno di un auto ed è anche un one man show, con unico e solo protagonista Tom Hardy. L’autista è Ivan Locke, sta guidando e parlando al telefono. Il film è tutto qui. Se non fosse che Locke ha diverse gatte da pelare: sta correndo in ospedale per stare vicino all’amante che sta per partorire (in realtà una collega che ha “accidentalmente” messo in cinta), sta per dirigere la colata di calcestruzzo più grande della storia a poche ore dall’inizio dei lavori. Il film dura un ora e mezza, che corrisponde pressapoco al tempo che Locke impiega per raggiungere l’ospedale. La forza del film, oltre alla scrittura dello sceneggiatore di La Promessa Dell’Assassino, è proprio questa correlazione che si viene a creare tra tempo della pellicola e tempo interno alla pellicola, correlazione che riesce appieno catalizzando l’immedesimazione spettatore-protagonista. Il personaggio di Locke è magnificamente costruito e reso nella sua complessità grazie alla bravura di Hardy; che, in poche parole, mette in risalto non solo il suo temperamento pragmatico, la sua mania di tenere tutto sotto controllo, di sistemare le cose, ma anche le sue paure, le sue ossessioni, i suoi fantasmi. Apprezzatissimo.

S.U.
  • http://www.blogger.com/profile/14934185582461522168 A.V.

    Ottime informazioni. Sei ormai un appuntamento fisso per rimanere aggiornato sulla Mostra.
    Due domande (una indiscreta):
    1 – Ti risulta che la Dante sia davvero supponente come ha tratteggiato Giusti su Dagospia? Questo atteggiamento è giustificato dal fatto che la sua opera è notevole come qualcuno ha detto?
    2 – Come hai fatto ad intrufolarti alla Mostra? Piacerebbe anche a me in futuro ma mi sembra praticamente inaccessibile.

  • http://www.blogger.com/profile/11347254217489974262 Stefano

    Wow, grazie. Si fa quel che si può (che si ha voglia, soprattutto).
    1 – Ho recuperato la recensione e la condivido in pieno. L’opera è forte, ma non ho visto questo atteggiamento supponente nel film, solo voglia di fare bel cinema (sì, proprio in Italia). Ripeto, dell'”opera” originale non mi importa nulla: cinematograficamente, è come minimo convincente. Che poi sia una storiella che potrebbe essere raccontata in un corto di 10 minuti piuttosto che in un lungometraggio di 90 minuti, è tutto vero, ma io gliela perdonerei.
    2 – Mi sono “intrufolato” grazie all’accredito “under 26″. Dall’anno prossimo, non rientrando più nella fascia di età, dovrò pensare di partecipare attivamente a qualche associazione culturale, e scrivere alla biennale per poter tornare con un accredito. Inaccessibile non lo è comunque.

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