Mostra del Cinema di Venezia: Giorno 3. Dante, Curran, Groning, Schrader

Nomi poco altisonanti? Festival del risparmio? Macchè!
Come avevamo detto, meglio un festival di grandi film che un festival di grandi nomi.
Infatti oggi il bilancio dei film visti è più che positivo: uno che ci fa gridare al capolavoro (il film-monumento di Groning), due estremamente notevoli, e uno…già in fase di rimozione.

Emma Dante: Via Castellana Bandiera (Italia)

E’ bello ricredersi ogni tanto. Le mie aspettative per questa pellicola rasentavano lo zero: Emma Dante non solo dirige un film tratto dal suo stesso romanzo, ma presenta il suo film pure in concorso, e alla prima regia. I miei pregiudizi sono stati completamente smentiti: non diciamo che Via Castellana Bandiera sia un capolavoro, ma tanto di cappello: dalla vicenda scarna da cui il film è tratto, la regista tira fuori il massimo. Siamo in Sicilia: due donne, una anziana signora succube di una famiglia di balordi e una ragazza in visita nel paese natio insieme all’amica-amante (Rohrwacker), imboccano una via a senso unico (anche se non si sa quale sia) da due parti opposte, e nessuna delle due fa marcia indietro. La via si trasforma in un limbo infernale senza scampo; l’umanità che la abita è selvaggia, avida, invidiosa, e bramosa di profitto. L’intero film è una metafora di matrice quasi bunueliana (L’Angelo Sterminatore, nel quale gli invitati ad una cerimonia non riescono a uscire di casa). Non c’è un briciolo di raziocinio in nessuno dei personaggi, a parte la passeggera-compagna della ragazza e il nipote della signora, l’unico che sembra volerle bene. “Opposizione” è il concetto chiave qui, soprattutto tra lo scontro puro, dai tratti mistici (all’inizio la sfida è frutto di cocciutaggine, ma gradualmente assume toni che travalicano la materialità di una precedenza stradale) tra le donne e la prevaricazione/manipolazione maschile. Le due donne infatti si scoprono, nella sfida (che assume tratti da Sergio Leone in alcuni primissimi piani), complementari. Complimenti quindi alla Dante: pur essendo il film derivato da un testo dai tratti spiccatamente teatrali, non c’è “zavorra”  nella messa in scena, e tutto scorre con realismo ed energia. Fino a una sequenza finale meravigliosa.

John Curran: Tracks (Australia)

Curran ha diretto in passato Stone, thriller pasticciato e pretenzioso. Non migliora, anzi, fa un passo indietro con questo Tracks, filmetto certamente di fattura pregevole ma piatto come il deserto che ritrae. Una ragazza parte insieme a 3 cammelli (o erano 4? ecco, lo sto già rimuovendo) e un cane (attenzione spoiler: il cane, a un certo punto, crepa) per attraversare il continente africano fino all’Oceano Indiano. Le motivazioni della ragazza non sono chiare all’inizio (viene accennata la sua intenzione di sfuggire alla “negatività della sua generazione”: Mah!), e non lo diventano mai; e mai il film apre a un discorso che possa essere vagamente più interessante di un resoconto di cronaca tappa-dopo-tappa, pericolo-dopo-pericolo, incontro-dopo-incontro da classico film impregnato di retorica edificante. Il film è costruito intorno all’attrice Mia Wasikowska, che è infatti l’unica nota positiva della pellicola, insieme all’ottima fotografia da National Geographic (che noia). Questo blog ha sempre avuto a cuore la tematica Cinema+Natura (prego rivolgersi a: Mattia), e i gli amministratori di questo blog si incazzano quando una potenziale miniera d’oro cinematografica come il deserto australiano viene portato sullo schermo con questa superficialità, senza un briciolo di riflessione, di mistero, di forza evocativa che non siano solo punti sulla mappa da raggiungere. Clamorosamente in concorso.Philip Groning:

The Police Officer’s Wife (Germania)

Die Frau Des Polizisten è un film di diverse spanne superiore a quanto visto finora sul Lido. Il Grande Silenzio venne girato da Philip Groning durante la sua permanenza di sei mesi presso un monastero sulle Alpi svizzere, e documentava la vita dei monaci certosini. Il risultato fu una pellicola-trip di quasi 3 ore, che raccomando a chiunque voglia vivere un’esperienza cinematografica diversa. Il regista tedesco torna in concorso a Venezia per affrontare una tematica ben più profana pur rispettando con coerenza assoluta il suo stile altamente contemplativo. La pellicola segue le vicende di una famiglia apparentemente perfetta, all’interno della quale si scatena la violenza del padre poliziotto. Groning suddivide il film in 59 capitoli (il film dura 175 minuti). Ogni capitolo è aperto da un titolo di inizio e di fine, e dura da pochi secondi ad alcuni minuti. Scene di vita familiare, scene agresti, ad una prima impressione senza senso. Ogni segmento non solo vive di vita propria, indipendente uno dall’altro, ma va a inserirsi con precisione chirurgica in un quadro molto più ampio, in cui si confondono passato e futuro, in un gioco di rimandi eccezionale. Può capitare ad esempio che un capitolo segua una volpe che attraversa la strada; non cogliamo il senso di ciò eppure la volpe è avvolta agli eventi e ha un legame con i protagonisti, anche se infinitesimale. Ogni sequenza, ogni dettaglio, costituisce un presagio del male che verrà: Groning riesce a iniettare tensione anche nei momento di maggiore tenerezza, sorvolando da vicino con la macchina da presa i suoi attori, indugiando sulla pelle, sul sangue e sui lividi che coprono progressivamente il corpo della moglie del poliziotto. Groning non giudica mai e non si affida neanche per un secondo ad alcuna forzatura o semplificazione, mostrando la figura del poliziotto contemporaneamente come padre amorevole e come mostro. The Police Officer’s Wife è una visione estenuante e una lezione di cinema sublime, un film che sbaraglia ogni linguaggio cinematografico, un film dall’impatto devastante eppure mai brutale, potente, evocativo, dall’incedere quasi scientifico, fino a quell’ultimo, inquietante e misterioso, capitolo.
Bisogna solo guardare e capire. Capolavoro.

Paul Schrader: The Canyons (Usa)

L’anno scorso era stato Spring Breakers e quest’anno è The Canyons l’immancabile film-scandalo della mostra. Da quanto ho potuto constatare confrontandomi con altri appassionati a Venezia i primi giudizi sul film lo danno 50/50, proprio come successe ad Harmony Korine l’anno scorso. C’è quindi chi lo bolla come filmaccio e chi come film epocale. Ancora una volta, ci tocca prendere una posizione moderata: il film è effettivamente segnato dalle interpretazioni rigide di Lindsay Lohan (un impasticcata cronica) e James Deen (un pornodivo), oltre che da una freddezza di messa in scena che sembrerebbe, più che voluta, derivata da un certo disinteresse del suo autore nei confronti della materia trattata. Secondo noi però un film non si dovrebbe giudicare solo dagli aspetti tecnici (scadenti) o dalla trama (scontata, rifacimento di vecchi classici di Ellis); infatti questo film, nei suoi mille difetti, ha un pregio: è un ritratto della nostra epoca. Un’epoca di narcisismo, di social network che contano più della vita reale, di conversazione a tavola con occhi fissati sugli smartphone, di cinema abbandonati, di video amatoriali, di vanità che fa rima con solitudine. Un film disequilibrato, non bello in senso classico ma interessante, da rivedere, forse da rivalutare.

S.U.
  • http://www.blogger.com/profile/01979007334252337448 Silvia Piccone

    Sono curiosa di poter vedere The Canyons, non essendo a Venezia70 lo aspetto nelle sale, buon cinema a voi!