Nuri Bilge Ceylan: C’era Una Volta In Anatolia

NURI BILGE CEYLAN

C’Era Una Volta In Anatolia

(Turchia 2011, 150 min., col., drammatico)

Arriva tardi e magari un pò inutililmente la recensione di C’Era Una Volta In Anatolia, e non mi si può biasimare se è stata più volte rimandata. Chi ha visto l’ultimo film di Ceylan, premiato con il Grand Prix a Cannes, sa che non si tratta proprio di una pellicola ad alta digeribilità.

Un commissario, un procuratore, un medico e un agente scortano un criminale che ha appena confessato un omicidio per le strade deserte dell’Anatolia. Il paesaggio è desolato. Il reo confesso non ricorda dove ha seppellito il cadavere. Si perdono; sostano in un villaggio. Ripartono.

Che aggettivi ci vengono in mente? Uno per primo: notturno. Tutta la vicenda è immersa nell’oscurità, fisica, perchè si svolge di notte (e qui viene da chiedersi: perchè fare un’indagine di polizia proprio di notte? Che vorrà dire? Uno dei tanti “misteri” irrisolti del film); tematica, perchè non sappiamo cosa sia successo esattamente (solo una prima sequenza mostra l’evento, e peraltro fuori da una finestra, come se noi non fossimo “invitati ad entrare”) e probabilmente a Ceylan non interessa proprio farcelo sapere, perchè a dominare è un’oscurità psicologica, morale: i personaggi non lasciano trasparire un filo di luce, ad un primo sguardo sono burocrati seri e inflessibili, più o meno mediocri, mentre invece sono scossi da tormenti e segreti che ribollono in profondità; ma a noi è concesso assistere solo ai sintomi, senza il minimo accenno ad uno sfogo, una qualche via d’uscita dalla riservatezza, da una estraneità nei confronti di tutto e tutti. E qui viene il secondo aggettivo:  impenetrabile.

Nello stile dei più grandi registi “contemplativi”, primo tra tutti Tarkovskij, Ceylan ci regala alcune sequenze che, spezzando la routine dell’indagine (che a tratti è davvero insostenibile) sono di indescrivibile bellezza. La pellicola è girata in digitale con una delle cineprese più costose al mondo (Sony F35, che si aggira sui 150000 euri…). Va detto che tutta la pellicola è visivamente splendida, e tutto l’apparato luci (tanto quelle “catturate” naturalmente, nelle ombre della notte o delle prime luci dell’alba, tanto quei fari “inquisitori” riscontrabili nelle luci artificiali) è indispensabile per una realtà che, senza luci, sarebbe buio completo; ma tra queste almeno un paio sono davvero meravigliose, soprattutto (figura a fianco) quella in cui una ragazza (praticamente l’unica donna all’interno di un film completamente “maschile”) porta da bere ai protagonisti esausti, seduti in una stanza povera e spoglia: il tutto illuminato solo da una candela. In un altra sequenza, assistiamo ad una mela che cade da un albero, rotola e finisce in un ruscello. La natura è specchio e riverbero dei moti dell’animo; c’è il simbolo, la poesia, l’aspetto esistenziale (che sfocia nelle Grandi Questioni, cose di cui sarebbe ridicolo parlare in questa sede) e anche quello politico. Infatti, uno degli aspetti della pellicola, nonchè una delle principali chiavi di lettura azzardate dalla critica, è che i protagonisti (che sono già maschere esemplari: medico, ufficiale, criminale ecc.) rappresentino la Turchia moderna (estranea, come dicevo prima), alla ricerca di un passato (il cadavere), che forse sarebbe meglio non trovare mai. Un passato scomodo, che preferirebbero dimenticare. Non a caso, domina il fuori campo: si veda la scena finale dell’autopsia, in cui “sentiamo” cosa succede ma non ci è dato di vedere l’operazione.

C’Era Una Volta In Anatolia è un’altro di quei film che stordiscono e lasciano interdetti (e qui anticipo la sensazione che proverà lo spettatore all’uscita della proiezione di The Master l’anno prossimo), tanto per durata che per ritmo, ed io stesso ammetto che alla fine mi sono domandato “E Allora?” per poi in seguito rispondermi “Ah, però…”. Qui si distingue il vero amante del cinema dal semplice appassionato, nella disponibilità di “sacrificio”…! Bisogna affrontare un film del genere con la dovuta preparazione psicologica, ed abbandonarsi serenamente al fluire delle immagini. E’ un tour de force, ma è straordinario. E alla fine si è ripagati, eccome.

Stefano Uboldi