William Friedkin: Killer Joe

WILLIAM FRIEDKIN

Killer Joe

(USA 2011, 103 min., col. drammatico)

Esce solo adesso in Italia (ma è stato in concorso a Venezia 68), per giunta solo in 53 sale (e considerando che il genere e gli attori impiegati potrebbero attirare molta gente, un altro punto di ridicolaggine si aggiunge al nostro sistema distributivo) uno dei film più sfacciatamente cattivi di quest’anno.

Difficile rimanere impassibili solo scrivendo di un film del genere. Il plot è già tremendo di suo, a partire dal sottotitolo:: “Murder never tasted so good”. Provincia degradata del Texas: Chris (Emile Hirsch) è uno spacciatore indebitato con il suo fornitore; con il consenso del padre decide di ingaggiare Joe (Matthew McConaughey), detective e killer, per uccidere la madre e incassare il premio di assicurazione sulla vita; Joe pretende come “caparra” la svampita sorella (Juno Temple) di Chris. Fin qui diciamolo, niente di che; ma le vie del destino sono strane e le cose non vanno, molto Coen-namente, come dovrebbero: il film prende improvvisamente una piega strana, quasi macabra, nella seconda parte, in cui Joe invade tirannicamente – e morbosamente – questo nucleo familiare.



Ingiustamente considerato regista di genere, William Friedkin è invece Autore (sì, autore: chi attinge alla tradizione per plasmare qualcosa di nuovo, chi è capace di instillare una visione personale su tematiche universali penso possa fregiarsi di questo “titolo”) sfuggente e non catalogabile. Insieme a Scorsese e Coppola fu una punta di diamante di quella New Hollywood che fece scintille a partire dalla fine dei ’60 fino a tutto il decennio successivo, firmando quei Braccio Violento Della Legge e L’Esorcista che ancora oggi guardiamo ammirati, e un pò nostalgici, perchè quello fu l’ultimo vero periodo in cui anche il cinema americano più mainstream riusciva a sorprendere; poi si è eclissato per un lungo periodo, firmando pellicole poco rilevanti, per tornare solo di recente con nuove, radicali idee. Tali idee si sviluppano attorno ad un concetto di cinema trasversale, in grado di sovrapporre (non “mischiare”, attenzione) diversi generi al fine di ottenere un quadro più incisivo della vicenda narrata, e in grado di spiazzare tutti quegli spettatori abituati a etichettare un film all’interno di un certo genere a priori di quello che stanno guardando. Ma più che questo risulta incredibile il modo in cui un regista ultrasettantenne sia riuscito a mettere in scena tanta rabbia e depravazione tutta insieme, oltretutto con una resa visiva tanto audace. Proprio questa estate ho avuto l’occasione di ascoltare una sua lettura ad una manifestazione culturale a Milano, durante la quale il regista si è messo a snocciolare le sue fonti di ispirazioni “classiche” (Vermeer, Beethoven e Welles su tutti); è stata una sorpresa quindi assistere ad un opera che più iconoclasta non si può!

Perchè Killer Joe inizia come poliziesco e finisce come qualcosa di non inquadrabile. Inafferrabile al punto da prendersi gioco dello spettatore con il suo grottesco humor: prima perdiamo le coordinate, e poi non sappiamo più che rotta prendere. Il sadico autore in seguito rincara la dose sfoderando un climax superbo, che per tradizione dovrebbe tendere a raggiungere una legittima catarsi, mentre invece prende un’altra strada, canalizzando il nostro già provato senso di disorientamento in una conclusione appositamente “bloccata”, eccezionalmente sospesa proprio sul più bello. Il paragone con Tarantino di cui molti parlano è del tutto campato per aria: mettendo in scena la violenza gratuitamente, Tarantino fa proprio della violenza un oggetto ironico e risibile; qui invece la violenza è spesso celata, suggerita: e fa male, molto male.

Il film vive così una costante tensione tra realismo e stilizzazione. Ma occhio a non sottovalutarne la portata: perchè qui Friedkin è riuscito a forgiare un linguaggio cinematografico che attinge a fonti spericolatamente diverse, dalla commedia nera al thriller, dal dramma psicologico al western, dal grottesco all’affresco sociologico, al surreale-onirico di Lynch (attraverso una fotografia dilatata di giorno e fluorescente di notte) e persino al B-Movie insistentemente citato (la TV è spesso sintonizzata su film di Kung Fu o su autoscontri); ma ha usato il noir, quello più ruvido e nichilista, come fondamenta e impalcatura del suo edificio artistico. Il noir, genere di riferimento per tutti quegli scrittori e registi che hanno provato ad indagare gli abissi della malvagità umana, qui è rivisitato, rifondato e sublimato.

Killer Joe è un capolavoro di cattiveria pura, un’opera che sonda attraverso l’assurdo i recessi della psiche, voyeurismo intriso di sangue, squallore e sesso ai massimi livelli di depravazione, un poema della sconfitta dell’onestà, un campionario di umanità-parassita che godiamo nel vedere schiacciata e distrutta.

E la scena del pollo, difficile credere che sia stata concepita da un regista rispettabile e non da uno psicopatico terminale, è cult immediato.

(il film ha altre 2 locandine degne di nota…)

Stefano Uboldi