Jeff Nichols: Take Shelter

Take Shelter

(USA 2011, 121 min., col., drammatico)

Già regista di culto, Jeff Nichols conferma con Take Shelter le sue doti narrative ed estetiche, tutte rivolte verso quel triangolo insolito che vede come punte la “psicologia”, l'”immagine” e la “natura”.

Curtis LaForche (Michael Shannon) ha una vita tranquilla. E’ un operaio, vive con la moglie Samantha (Jessica Chastain), sarta part-time, ed è padre di Hannah sorda dalla nascita (Tova Stewart). Il loro tenore di vita non è dei migliori, ma i sacrifici quotidiani permettono alla famiglia LaForche di vivere felici in Arkansas. Solo qualcosa di personale, individuale e segreto come gli incubi di Curtis, possono rovinare una vita sociale, portandola al limite dello sfascio.

Seconda opera di Nichols e… boom! fa il botto. In attesa di una conferma dopo lo straordinario impatto dato dalla sua America rurale in Shotgun Stories, Jeff Nichols non delude le attese e calca, senza esasperarle in una sorta di auto-idolatria, quelli che possono essere definiti come i suoi cavalli di battaglia: la solitudine mentale dell’uomo, un’estetica angosciante e il mistero della natura.

Vincitore del Gran premio della Settimana internazionale della Critica al Festival di Cannes 2011, Jeff Nichols conferma le sue doti nell’analizzare la psicologia dei personaggi. Concentrandosi su un personaggio solo (a differenza del precedente lavoro) il regista catalizza le ansie della società nel singolo individuo. Al di là di un’analisi sociale sull’epoca da noi vissuta, seppur presente nella narrazione, si preferisce qui esasperare fino all’allucinazione l’egoismo individuale che a ragione si rinchiude su sé stesso. Curtis non parla dei suoi incubi “tempestosi” (nel vero senso del termine), perchè sa che sono personali e, in quanto tali, non possono essere compresi da nessuno.

L’intera narrazione, infatti, si svolge nella frizione, ma allo stesso tempo un necessario legame, fra l’interno e l’esterno della mente. Curtis non dice nulla a nessuno, neppure alla moglie, per non angosciarla troppo (già in comprensibile difficoltà per la situazione di Hannah), ma allo stesso tempo fa in modo che i suoi problemi vengano comunque a galla. Prima rinchiude il proprio cane, poi addirittura lo regala; successivamente, non sentendosi in sicurezza, costruisce un rifugio per tornado nel suo giardino con i pochi soldi che avevano da parte e così via in una spirale senza fine che può portare solo all’autodistruzione. Curtis, insomma, mostra all’esterno solo l’effetto dei suoi mali, nascondendo ai suoi cari le cause.

Come nel precedente lavoro, il dialogo è la maschera di una solitudine che non si esprime a parole, ma fisicamente: fronte sudata, smorfie, sguardi nel vuoto. Il cervello lavora in maniera silenziosa, non fa sentire i suoi macchinari alle orecchie dei prossimi.

Seconda punta di questo “triangolo nicholsiano” è l'”immagine” che emerge grazie al sodalizio con Adam Stone: è da parecchio tempo che non venivano mostrati dei cieli così. Forse, e paradossalmente, sono più significative le inquadrature verso il banale azzurro che non quelle finali sulla tempesta (a rigor di cronaca essa non era solo un incubo, ma un presagio quasi apocalittico). L’azzurro quotidiano del cielo, diventa infatti l’eccezione: è troppo azzurro per non dirci qualcosa e questo, Curtis, a differenza degli altri lo ha capito. Il cielo abbaglia l’uomo per la sua banalità, presagio di un futuro cambiamento ed è questo il legame con l’altra punta del triangolo: la “natura”. Novello Peter Weir, Nichols non la banalizza a qualcosa di mistico, ma la avvicina a quello che è: Natura e basta. Sono gli uomini, come già per Weir e in un certo modo per Herzog, che la elevano a qualcosa di mitico.

Curtis si rinchiude in questa angoscia, in questa sorta mitizzazione di ciò che non conosce. Ecco l’errore del protagonista: tentare di mitizzare qualcosa di incomprensibile, che accade. Non è un caso, allora, che l’unica ad accettare la non paura del non noto è la bambina. Essa è la prima a vedere, ciò che Curtis aveva intuito: la tempesta. C’è chi accetta attivamente (non passivamente!) la Natura, come Hannah, c’è chi non riesce ad accettare le proprie intuizioni pensando alla società, come Curtis, e chi vuole nascondere tutto sotto un velo e vivere nella normalità, ossia Samantha.

Il rifugio, il “mettersi al riparo” come vuole il titolo, non è la soluzione: il troppo egoismo nuoce all’altro. La soluzione non è però buonista e non rimanda all’altro, ma è una constatazione degli eventi: c’è la tempesta, “punto”, come la affrontiamo?, “punto”.

L’ultima parola, paradossalmente, è quella della figlia: colpetto sulla spalla del padre e l’indice puntato verso il cielo minaccioso.

Non è il mistero della Natura il vero problema, ma il mistero del comportamento umano nei suoi confronti e nei confronti degli altri individui nella società: ecco la psicologia studiata da Nichols.

Mattia Giannone