Wes Anderson: Moonrise Kingdom

Moonrise Kingdom

(Usa 2012, 94 min., col., drammatico)

Gli spazi di Wes Anderson si dilatano verso l’aperto e conquistano qualche applauso in più dei soliti accaniti fan del dandy texano.

Estate del 1965. New England, Usa. Sam (Jared Gilman) e Suzy (Kara Hayward), due dodicenni “con problemi” – secondo le norme sociali vigenti – decidono di scappare dalla società per stare semplicemente insieme. Questo amore pre-adolescenziale e innocente, metterà in sobbuglio la cittadinanza locale. Gli scout, da dove è fuggito l’orfano Sam, capitanati da Edward Norton, lo sceriffo (Bruce Willis), i genitori di Suzy (Bill Murray e Frances McDormand) e molti altri, tenteranno di ricomporre il puzzle dell’ordinaria e tranquilla comunità.

Sono di parte e per me è difficile dare un giudizio oggettivo alla nuova pellicola d’apertura di Cannes 2012, ma Wes Anderson sta maturando e anche bene.

Dopo un inizio tipicamente andersoniano a “casa di bambola” (fantastica questa definizione dei Cahiers du Cinema!), in cui viene presentata la casa di Suzy e i suoi abitanti (vi ricordate la Belafonte di Zissou e la tana di Mr.Fox?) il clima si dilata negli spazi aperti della natura del New England, presentati dall’epico (nel senso brechtiano del termine) Bob Balaban.

Il regista texano si diverte e si vede; affronta l’ingenuità del primo amore su due piani diversi. Il primo è quello vissuto dai due bambini, per loro la fuga è qualcosa di serio e premeditato; è un’azione da adulti da portare a compimento con l’incoronamento del primo bacio sulla spiaggia ribattezzata Moonrise Kingdom. L’altro piano è quello degli adulti che vedono la fuga e l’amore dei due solo come un gioco, un brutto gioco che poteva finire male. Si potrebbe pensare a un drammone strappalacrime da due soldi, ma qui entra in campo l’ironia andersoniana: noi spettatori non stiamo su un piano o su un altro, vediamo il tutto dall’esterno. Se infatti il pubblico ride per i ragazzini naif, non è per patteggiare con loro, ma perchè riconosce sullo schermo il proprio vissuto: il mondo dell’infanzia che si crede adulta. Dall’altro Anderson mette a nudo il vero mondo “dei grandi” e la loro ipocrisia. Essi litigano, la loro organizzazione non è delle migliori e i rapporti extraconiugali sanno tanto di scappatella adolescenziale. Paradossalmente, in Moonrise Kingdom gli adulti si credono adulti, ma sono bambini e questi sono più adulti dei primi.

Non mancano i tratti stilistici del texano. Dalla composizione geometrica dello spazio (questa volta in esterno), all’uscita matrimoniale dalla chiesa in rallenty, al significato simbolico e narrativo degli oggetti (si pensi al binocolo di Suzy come estensione del suo corpo e che funge da schermo/filtro verso il mondo) e i costumi ben definiti associati a dei colori pastello (la tenuta scout). La musica è protagonista e già culto per i suoi fan, così come i bravissimi interpreti.

In un crescendo di emozioni (forse un po’ troppe nella parte finale del film: unica pecca), Wes Anderson strappa applausi non solo a Cannes, ma anche in un piccolo cinema di quartiere con soli novanta posti. E’ da molto che non mi accadeva. Piccolo consiglio: rimanete in sala anche durante i titoli di coda…

Mattia Giannone